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Interventi sanitari e psicologici sui partner di Hiv positivi
Legami a rischio, ASL Milano, 2000

Riconoscimento dei legami e finalità preventive

La focalizzazione dei medici e degli stessi psicologi sul rischio di contagio nelle coppie, pur prioritaria nei servizi di screening, nell’intento di delimitare un terreno di applicazione dell’informazione preventiva, può correre il rischio di ratificare in modo indiscriminato l’esistente, cioè di considerare come “relazioni” non solo accoppiamenti patologici non ancora strutturati, ma anche interazioni transitorie e superficiali.

Per tale ragione è fondamentale la distinzione tra relazioni in fase di formazione o recenti e relazioni stabili, soprattutto al fine di evitare l’errore di imporre ruoli impropri e pericolosi a persone che non hanno ancora approfondito né scelto il vincolo con un soggetto Hiv positivo.

Non è infrequente, in effetti, in particolare nelle Associazioni di volontariato, l’offerta di una identità specifica e di un copione comportamentale pertinente a tutti coloro che a vario titolo si presentano come partner di Hiv positivi, indipendentemente da una valutazione della fondatezza e della validità dei legami in oggetto.
L’equivoco si fonda da un lato sull’abitudine a ritenere aprioristicamente “buona” qualunque forma di unione, e dall’altro lato sul pregiudizio favorevole da parte degli operatori del settore riguardo alle coppie con membro portatore di Hiv.

L’idea di poter ovviare al problema dell’isolamento affettivo e sessuale delle persone Hiv positive grazie ad operazioni ideologiche e massimalistiche (insistenza sulla solidarietà e sulla non discriminazione), nel tempo si rivela fallimentare e causa di ulteriori sofferenze, con ricadute sociali a distanza ancor più negative.
Dovrebbe essere interesse della stessa persona portatrice di condizioni di malattia o diversità poter contare su partner (e congiunti) motivati e consapevoli, quindi capaci di fare scelte sostanziali e di effettivo condivisione.

Può rappresentare, d’altronde, un esempio di pragmatismo realistico l’interesse istituzionale per la sorveglianza delle coppie discordanti per l’Hiv, poiché il controllo dell’infezione è più agevole e il danno sociale del contagio risulta minore quando la circolazione del fenomeno viene confinata nel recinto delle coppie stabili.

La problematica Hiv, al contrario, può costituire terreno di meditazione e di approfondimento, nonché di crescita, per alcune persone. Nel progetto in esame si è potuto constatare come l’intervento in una fase critica per il singolo individuo, predisposto alla riflessione sulla prosecuzione del legame vuoi dalla presa d’atto di difficoltà oggettive vuoi da un’acuta sofferenza, produca significative modificazioni degli scenari relazionali, in termini sia di separazione che di rimotivazione.

La richiesta del test può essere definita per alcuni partner un punto debole, che li sollecita ad interrogarsi e a misurare la rigidità delle loro coazioni a ripetere, momento quindi anche di possibile passaggio verso il nuovo, in cui cioè la fragilità causata dalla perdita dell’equilibrio precedente, spesso patologico, si accompagna alla mobilitazione di risorse e all’emergere di un sopito o fino al presente disatteso bisogno di cambiamento.

Nelle situazioni strutturate di patologia e degrado l’elemento discriminante diviene la presenza di figli minori, nel cui interesse andrebbero prospettate eventuali azioni rieducative o terapeutiche. Anche nell’invio a servizi specifici (Terapia Familiare) è necessario un protocollo per individuare le coppie effettivamente in grado di giovarsi di una ridefinizione delle dinamiche e dei ruoli interni, mantenendo fermo l’obiettivo del contenimento dell’infezione.

Limiti dei servizi di screening e della specifica utenza

Il progetto ha posto in luce l’inadeguatezza di un tipico servizio di screening ai fini della realizzazione di un effettivo lavoro di consulenza e sostegno sul piano psicologico e sessuologico, tenuto conto che persino il cosiddetto “counseling” sanitario appare di difficile effettuazione in condizioni ordinarie in tali strutture.

L’offerta di consulenza risulta in prima battuta una complicazione (e non una facilitazione) del rapporto tra operatore e utenti, a causa dell’abitudine a concepire l’effettuazione del test come un controllo di routine senza contrattempi o intralci di sorta. L’utente in genere si aspetta di usufruire in modo anonimo, gratuito e rapido di un Servizio, che non viene identificato quale possibile ambito di consulenza, ma al massimo come un luogo esente da tasse doganali sull’identità di cittadino, in cui ottenere sommarie conferme o smentite di nozioni già possedute.

La domanda portata è ad un tempo superficiale e indefinita, ma pure fortemente carica a livello emotivo; l’ansietà correlata al timore per le conseguenze del gesto (decisione di venire a conoscenza del proprio stato sierologico) non predispone all’approfondimento del contatto con il personale sanitario, che viene completamente posto in ombra dalla focalizzazione sull’esito del test. Solo in un secondo momento e nel tempo può verificarsi, grazie soprattutto all’abilità degli operatori, l’opportunità di creare rapporti fiduciari.
Stabilire rapidamente, senza precisa definizione dei rispettivi ruoli e in assenza di garanzie di continuità, una relazione confidenziale e di presa in carico non è operazione alla portata di buona parte dei cosiddetti tecnici della salute (medici e psicologi).

I congiunti di soggetti Hiv positivi, più degli altri, tendono a mantenere generalmente il riserbo più stretto sul loro legame (vissuto da alcuni con vergogna e disagio), oppure sono propensi a ritenere superflua ogni investigazione o precisazione nel merito del tipo di rapporto intrattenuto, a partire finanche dalla verifica degli episodi di rischio.
La raccolta di informazioni nei Centri di screening sulle abitudini di vita in campo relazionale è quindi difficile, complessa e delicata, dato che di norma l’intimità sessuale ed affettiva non è oggetto di dialogo, se non di rado, nella comunicazione tra paziente e referenti sanitari (medico curante, ginecologo, urologo, dermatologo), e talora neppure nei trattamenti psichiatrici e psicoterapeutici.

Il miglioramento della conoscenza dello stile di vita e della personalità dell’utente, d’altronde, rischia di portare alla luce verità scabrose o scomode, in un contesto che non offre sufficienti tutele (mancanza di setting, regole e contratto) e non può garantire la strutturazione di percorsi di invio verso servizi pertinenti.

A parte i casi di soggetti disturbati, che hanno già bruciato i contatti con tutti i servizi possibili, in molte situazioni che non sono mai state oggetto di attenzione professionale è sufficiente un aggancio parziale per vedere emergere una problematica o una patologia tali da necessitare di cure, senza possibilità per l’operatore di intervenire con minimo rischio, se non con la presa in carico diretta incompatibile con il servizio di screening.

L’impatto violento delle problematiche in gioco sulla personalità, sovente già colpita da altre vicende traumatiche, condiziona pesantemente la domanda di “aiuto”, portando eventualmente alla richiesta o alla pretesa di poter “dar sfogo” alle tensioni accumulate per trasferire almeno parte della violenza subìta all’esterno. La fatica, dissimulata o manifestata, necessaria per forzare la realtà con razionalizzazioni difensive e per tenere insieme esigenze contrastanti quando non opposte, lascia spazio soltanto per uno “scarico” estemporaneo o per un sollievo momentaneo.

L’individuo oppresso dall’incertezza, dalle preoccupazioni e dalla irrisolvibilità dei problemi che caratterizzano la relazione col congiunto Hiv positivo, mira semmai alla catarsi e alla consolazione a basso prezzo. Egli non vede come affrontando volontariamente la negatività sia possibile vincerla o ridimensionarla, pensa piuttosto a perfezionarsi nell’arte di sottrarsi e di respingerla con una negazione militante, oppure spera in una fine improvvisa e in uno strappo casuale dalla situazione in cui è coinvolto. La proposta di dialogo nel momento della verifica testale non può che apparire per molti un invito ad “occuparsi” proprio di ciò che essi tentano di cancellare o dimenticare.

L’offerta di uno spazio di ascolto rischia di essere una sollecitazione all’espressione di emozioni e vissuti sopiti, censurati o rimossi sino a quel punto; con l’aggravante delle reazioni successive alle esperienze delusorie o collusive verificatesi nel tempo nei rapporti con varie figure terapeutiche incontrate nella frequentazione delle strutture sanitarie.

Quel che l’operatore pensa (e il Servizio ha previsto) come un intervento di “consulenza” o “sostegno”, si rivela un’iniziativa ad alto rischio di scompenso e di una complessità sovente superiore alle sue forze, intese anche come garanzia di tutela e azione da parte del Servizio di appartenenza. Non si ha a che fare, infatti, soltanto con l’emotività “attuale” da contenere e condurre, bensì anche con l’insieme dei contenuti e delle difese stratificatisi negli anni, in cui alla negazione brutale ha fatto da contrappeso la sedimentazione dell’aspettativa di “liberazione assoluta” dalle difficoltà.

A furia di vivere “in superficie”, la profondità diviene abisso che esonda e travolge se evocato incautamente o senza possibilità di trattamento. I vissuti emergono allora come “concentrati” e potenziati, non essendo stati manifestati in modo diluito nel percorso di vita. Chi fa brillare la bomba, corre il pericolo di subirne le conseguenze anche nel senso di pagare per tutti quelli che in precedenza non hanno consentito il processo di progressivo adattamento dell’individuo alla situazione problematica.

I limiti dell’intervento di “aiuto” vanno pertanto delineati con precisione e calibrati sulle singole personalità, grazie ad un attento lavoro di équipe che consenta il minor grado di approssimazione e contenga il rischio di psicologizzazione del rapporto con gli utenti.

La possibilità di stabilire una relazione significativa e produttiva con le persone afferenti ai Centri per l’Hiv dipende strettamente dalle condizioni e dal contesto in cui si trovano ad agire gli operatori, oltre che dalla loro competenza.
Il progetto in questione ha risentito sia a livello quantitativo che a livello qualitativo delle carenze strutturali del NOPA (in termini di personale, di formazione adeguata, di organizzazione delle attività); sicché non è stato possibile garantire alla popolazione oggetto di studio l’attenzione prevista, nella raccolta delle informazioni come nella consulenza sanitaria e psicologica.

Nel corso del 1999 non è stata compilata per tutti i candidati la specifica scheda prevista dal progetto, potendo contare su di un solo medico in grado di accogliere con perizia la specifica utenza e di due sole figure professionali con strumenti psicologici per un monte ore esiguo. Ne è derivata una evidente sproporzione tra le situazioni suscettibili di intervento e la concreta attuazione. La parzialità della realizzazione è tuttavia mitigata e controbilanciata dalla resistenza manifestata dalla maggioranza della popolazione dei congiunti di fronte alla proposta di spazi di approfondimento. Si sono comunque rivelati più disponibili e ricettivi coloro che non avevano alle spalle rapporti con servizi di cura (quali CPS o Ser.T.), ed ovviamente coloro che erano in possesso di maggiori strumenti culturali e migliore retroterra sociale.

E’ importante ribadire che in linea generale ci si confronta con un’utenza multiproblematica, non di rado già compromessa in modo grave e irreversibile dal punto di vista esistenziale. Per essere in grado di comprenderla ed eventualmente “aiutarla” (promuovendo l’utilizzo di risorse di salute e non puntando puramente al condizionamento delle condotte in base ad uno schema di controllo sociale), sono indispensabili conoscenze specialistiche ed elevata professionalità.
Anche il “semplice” compito dell’educazione sanitaria per un gruppo caratterizzato da estrema complessità di variabili psicosociali, richiede un patrimonio non comune di cultura e di sapere esperienziale (cognizioni e competenze psicodinamiche, psichiatriche, sociologiche, sessuologiche, etc.). Senza contare l’affinamento delle abilità comunicative, che va molto al di là dell’apprendimento di tecniche per il trasferimento di informazioni o l’istruzione didattica.

Va considerato, inoltre, con realismo e senso pratico l’ostacolo frapposto a qualsivoglia “intervento” dalla refrattarietà e talora inamovibilità di buona parte dei destinatari. La consueta difficoltà di accoglimento e trattamento delle tematiche sessuali ed affettive nel contesto del servizio pubblico è in questo caso aggravata dall’incapacità da parte di molti utenti di stabilire relazioni costruttive e dalla indisponibilità di un numero considerevole di essi all’approfondimento della problematica vissuta in prima persona.

Tali considerazioni impongono di tener conto anche dell’interesse collettivo e di fattori economici (valutando risultati, costi e benefici di ciascuna iniziativa) nella programmazione di attività finalizzate alla prevenzione dell’infezione da Hiv e al sostegno psicologico dei gruppi interessati, considerando l’ingente quantità di denaro pubblico sin qui investita nel settore Aids in maniera troppo spesso sommaria e in assenza di strategie scientificamente fondate.

In proposito, dopo quasi due decenni dall’inizio dell’epidemia in Italia, parrebbe più opportuno che le autorità istituzionali orientassero i finanziamenti per la prevenzione in primo luogo e prevalentemente verso le strutture pubbliche territoriali (comprendendo Centri MTS, Consultori Familiari, medici di base, etc.), proprio allo scopo di garantire continuità e qualità delle prestazioni, nonché per integrare finalmente la problematica dell’infezione da Hiv nel contesto ordinario dei servizi sanitari e psicosociali.

Mattia Morretta (novembre 2000)