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Categoria a rischio, ovvero il dazio dell'omosessualità

Mano a mano che si affievoliscono gli echi dei colpi di artiglieria e del rullo dei tamburi della grande guerra dell’Aids - tanto che a volte può sembrare di aver solo immaginato l’orrore e il patimento - diventa sempre più evidente che il concetto di “categoria a rischio” riferito agli omosessuali aveva e ha, più che fondamento oggettivo dal punto di vista epidemiologico, significato specifico dal punto di vista psicologico.

Le complicazioni generate dall’Aids, in termini di catene concrete e associative (profilattico, barriere psico-fisiche, diffidenza emotiva, partner occasionali versus coppia, inguaribiltà della patologia di fondo, test sierologico, etc.), hanno aggravato il carico di preoccupazioni e conflittualità di cui è costellato il percorso di autoaccettazione dell’omosessuale.

Le carte da giocare, tuttavia, son rimaste le stesse di prima (di sempre?) e si può dire che siano persino più leggibili grazie all’esistenza di tale fattore di disturbo, un vento che scompagina e mette in discussione i traguardi raggiunti (presunti e reali).

In particolare, il suono delle trombette dei complessati ("non liberati") e dei rivali in amore “gay dichiarati”, a causa del timore di contrarre l’Hiv dopo incidenti, omissioni, errori di traiettoria peniena, rivela un retroterra di pregiudizio e ignoranza mantenutosi intatto dietro la facciata di mutamenti “clamorosi” del costume.

In effetti, l’Hiv ha ereditato gli atteggiamenti preesistenti nelle generazioni pre-epidemia per le quali l’esposizione alle malattie veneree risultava correlata al processo di identificazione omosessuale, pur in maniera contraddittoria e ambivalente.

A fronte delle decine di migliaia di morti di ieri e delle sieroconversioni a ripetizione di oggi, non sono pochi coloro che, fatti i conti e tirate le somme (in fretta e furia) delle personali convinzioni in materia, deducono che “tanto vale rischiare” perché è inutile opporre resistenza, conviene rassegnarsi alla sessuomania e farsi marchiare a fuoco come il bestiame.

Anzi, l’esperienza “insegna” che se deve capitare capita e molti hanno preso l’Hiv non si sa in che modo, basta distogliere lo sguardo per non vivere sotto la minaccia o in attesa di un evento fatale.

Altri non usano precauzioni del tutto o quasi per non doversi sentire a rischio per definizione o antonomasia, cioè perché non vogliono darla vinta a chi li vorrebbe costretti a tener conto del maledetto virus e limitarsi il più possibile.

Non fanno neanche controlli sierologici perché se no dovrebbero ammettere di farsi condizionare da ciò che negano o rifiutano, perciò si esonerano con fierezza dalla visita di prammatica per le reclute del servizio di leva sessuale.

Il test per l’Hiv non va e non viene fatto in tal caso poiché è la prova dei convincimenti più retrivi e primitivi, e senz’altro costituisce la conferma che sì, è proprio vero: sei omo, dunque a rischio.

Altri ancora, quelli che più esplicitamente non vogliono riconoscersi omosessuali “a tutti gli effetti”, o meglio sentirsi forzati a farlo, percepiscono la proposta del test Hiv, da parte di un medico (che magari ha intuito l’inclinazione o ha sospetti al riguardo) oppure di un partner, alla stregua di un’offesa all’amor proprio perché inferenza indebita di condotte rischiose (spesso effettive), e son pronti ad argomentare contro il preconcetto che vuole la pericolosità implicita nell’omosessualità e l’Aids il corollario di certe “categorie”.

Son i primi, però, a credere nel profondo, più o meno inconscio, che non vi siano alternative per un omosessuale, una volta rotto il ghiaccio della repressione, ci sarà da lasciarci lo zampino tanto andrà la gatta al lardo, e se ne porteranno i segni a cominciare dalla contaminazione del sangue.

Si vede pertanto a occhio nudo quanto per un gran numero di omosessuali “contemporanei” l’attribuzione di omosessualità equivalga a una imputazione. Il fenomeno più singolare e paradossale è comunque quello della battaglia contro l’idea di rischio categoriale combattuta nel silenzio e nell’isolamento dai soggetti omosessuali segnati da varie forme di venereofobia, perché lì davvero l’Hiv mescola le carte alla rinfusa e fa dire le ultime verità da seduta spiritica sull’integrazione dell’orientamento sessuale.

Sembra assurdo, eppure proprio quelli che più hanno timore del sesso paiono concentrare la maggior carica di omosessualità come inclinazione, cioè indipendente dal comportamento: una sorta di indicatore di direzione, senza che il soggetto però si muova conseguentemente.

Al di là di ciò che fanno in pratica, essi non possono nulla né sull’omosessualità quale preferenza a priori né sulla paura irrazionale.
Essere omo è più che sufficiente per pagarne tutto il prezzo, non è previsto alcuno sconto per la continenza sessuale, la sostanza non cambia.

Se ne potrebbe dedurre che è questa una delle ragioni per cui la maggioranza dei gay finisce per fare sesso a più non posso, tanto è uguale e almeno ci si riempie la pancia.
Quando si è criminali per atto di nascita e tenuti a delinquere per contratto, non sarà certo un Aids o Hiv qualunque a cambiare la sorte.

Facciamo l’appello: Categoria a rischio? Presente!!

Mattia Morretta (luglio 2007)