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Eppur si muore, ancora: Hiv e comuni mortali

Chi crede che di Aids non si muore più, chi cerca l'(u)omo nelle comunità di accoglienza per malati terminali, chi evade sul pianeta web per rimuovere la realtà in blocco, chi ricorda i defunti ma solo col nome per non esagerare. Mortalità, male di vivere, limiti, condizione umana ci riguardano ancora? Meditazioni prima della fine...

Primo episodio

Conversazione in spiaggia tra un Cinquantenne col vizio professionale dell’igiene mentale e un Quarantenne col vezzo delle cartine adesive per lo sbiancamento dei denti. Il secondo si lamenta in generale di quelli che nominano il preservativo, non vuol sentire prediche sulle precauzioni, soprattutto dai falsi moralisti che vedono il danno materiale solo nel sesso.

Appreso che il sottoscritto non fuma, si lancia in una filippica contro i gay fumatori incalliti che parlano di profilattico a sproposito e che dovrebbero occuparsi della bomba ad orologeria annidata nel loro organismo, dati i ben noti rischi cancerogeni del fumo.

Dal suo punto di vista è assurdo usare due pesi e due misure: non proteggersi dall’Hiv è sbagliato e invece ammalarsi di tumore a causa delle proprie malsane abitudini è giusto? Eh no, non c’è coerenza, la salute è salute, e allora che ognuno scelga la malattia che preferisce, ovvero sia libero di sfidare i pericoli che vuole!

Sulla piena e cosciente assunzione dei rischi non ho dubbi, sull’effettiva incapacità e sulle pessime ricadute interpersonali (nonché sui costi per la collettività) altrettanto.

A parte la consueta rimozione delle infezione veneree, non mi era mai capitato in anni di (dis)onorevole carriera di pedagogo ambulante di sentir equiparare Aids e Cancro ai polmoni, o di porre sullo stesso piano le condotte “favorenti” avendo come riferimento la prevenzione in astratto o il salutismo da rotocalco, cioè il fatto che si tratti di patologie “prevenibili” (benché ciò valga più per l’Hiv che per le neoplasie polmonari). Del resto, di Hiv “non si muore più” argomenta il signor zanna bianca che non disdegna il mordi e fuggi nei club hard sex in certe notti alla Ligabue.

Orbene, la cronicizzazione spiega la derubricazione e declassazione dell’Hiv da anticamera della morte stigmatizzante a sala d’attesa del vaccino e delle ultime novità farmacologiche. Quasi tutti, giovani e vecchi, non vedevano l’ora di liberarsi dal codice a barre di un’etichetta e dalla profezia, la nuvola fantozziana sul capo degli impiegati del sesso gay. Domani sentiremo canticchiare il motivetto di Mina: “Che cos’è questa robina qua?”.

I fatalisti per accidia o convenienza, i proclamatori del “tanto se capita capita” o del “di qualcosa bisogna pur morire” con la sicumera di chi ritiene d’aver proferito chissà quale grande massima, li vedrei bene in discarica indifferenziata, ante morte.

Ciò nonostante, lungi da me i corretti stili di comportamento per la salute totale! Ciò che conta sono i princìpi e le finalità che sottendono motivano guidano le azioni, laddove sono implicati coinvolgimento, rapporti e reciprocità (compresa la responsabilità di fare del male), e non gli anticorpi, i radicali liberi, i valori nella norma.

Finiamola con le finte polemiche sul profilattico, che è appena un presidio igienico, alla stregua di un disinfettante, e non un indice di responsabilità, autostima, consapevolezza. Quanti mascalzoni con e senza condom pretendono di passare per “sani” e “attenti”.
Complimenti per la trasmissione di informazioni, concetti e infezioni in vuoti a perdere.

Secondo episodio

Il volontario omo di confessione cristiana, che lascia le pecorone gay nel recinto dei locali alla loro sorte di alienati e va a recuperare la pecorella smarrita sotto forma di malati di Aids in una Casa del tal Arcangelo nella Bergamasca, si fa vanto di portare talora in visita edificante nella dimora della pietà (con sovvenzioni pubbliche e private) qualche gay ignorante o distratto, non tanto per incoraggiare percorsi di solidarietà quanto per aprirgli gli occhi.

Infatti, quando fa delle considerazioni sui malati terminali, gli accade di sentirsi chiedere da fanciulli sperduti nel paese delle meraviglie: “perché si muore ancora di Aids?”.

Detto di sfuggita che gli ospiti omosessuali sono sempre stati mosche bianche nelle strutture residenziali e che l’Aids era ed è uno svantaggio supplementare e non la ragion d’essere di tali realtà assistenziali. E aggiunto che, oltre a coloro che son disposti a pagare per un posto in prima fila davanti ai moribondi e ai funerali, non mancano i salvatori-iene o avvoltoi che piombano sugli esemplari feriti offrendo seconde e terze opportunità, riscatti dell’ultimo minuto, sconti sull’aldilà, rivelazioni spettacolari.

Ho capito bene? La questione sarebbe dunque di cosa si muore e non che si muore e basta?! Si può credere che, depennando via via le voci del nostro elenco di cause di decesso, cambi la sostanza dell’esistenza? E per la sottospecie degli omosessuali sarebbe istruttivo e trasformante continuare a leggere nel libro dei morti dell’Aids?

È l’Aids l’unico memento mori o monito del genere “verrà un giorno” manzoniano, la sola occasione di acquistar peso morale, l’esclusiva scuola di coscienza minima? Dove sono tutti i risvegliati dalla peste? Su quale scenario si ri-acquista la vista?

Usare la minaccia della privazione della vita quale bene supremo e al contempo di base sarà pure un mezzo, ma qual è il fine? E il credente, non dico sperando di passar a miglior vita, ignora che l’ultima parola non sarà la morte perché c’è stata e c’è una croce (per crucem ad lucem)?!

Basta con la lacrima facile, la commozione superficiale dei sedicenti “sensibili”, “altruisti”, “ispirati” da qualche Dio. Si abbia il coraggio di non invocare la trascendenza per giustificare le proprie scelte.

Non serve a niente drammatizzare l’Hiv, smettiamola di sfruttare l’Aids per resurrezioni e conversioni fittizie, specie sulla pelle degli altri. E agiamo di conseguenza, se veramente siamo consapevoli della mortalità, dedicandovi un pensiero lucido e onesto, quando siamo in possesso delle nostre facoltà mentali.

La quinta teatrale e patetica dell’agire umano è la tragedia, non il dramma. L’uomo va cercato/trovato anzitutto dentro se stessi e ovunque, sofferenze infermità mutilazioni separazioni decessi lutti malvagità sono pane quotidiano, a dispetto delle brochure dei messaggi per gli acquisti sull’eden qui e ora.

Terzo episodio

Nelle brevi passeggiate esplorative sul Pianeta Web (per non parlare per sentito dire), tentando di orientarmi nella giungla di chat line, promotori di accoppiamenti facili, anime gemelle e corpi siamesi, sono stato colpito in particolare da un vuoto pneumatico e da un silenzio assordante.

Sullo sfondo di un materiale trito e ritrito, che pure passa per ultra moderno e nuovissimo, risalta la censura pressoché assoluta sulle problematiche esistenziali.

Si dirà: per forza, si tratta di giochetti senza frontiere, innocenti evasioni, scaramucce amorose, colpi di fulmine erotici, non si può pretendere un dialogo sui massimi sistemi e la seriosità moralistica o scientifica nelle ore di ricreazione! D’altronde, se Facebook si autodefinisce “il più vasto ambiente per stare con gli amici”!

I pesciolini e i pescecani che affollano la rete del Grande Fratello nei fondali per incontri del terzo tipo son loquaci e voraci, praticamente onniscienti e onnivori, però rispettano l’omertà su dolore, malattia e morte, a prescindere dall’Hiv che dovrebbe essere un luogo comune data la diffusione nella categoria.

Quasi tutti gli spensierati e disimpegnati internauti su imbarcazioni da diporto si attengono al copione delle crociere off shore e svicolano all’avvistamento della guardia costiera. Il perché è presto svelato: alla realtà essi oppongono il fatidico e famigerato “me ne frego!”.

Pochi esempi. Chi si iscrive in quanto uomo che cerca donne per poter scodinzolare a mo’ di cagnetto/a dietro a tutti gli esponenti del sesso maschile in linea, per chiacchierare di ogni futilità e mentire senza ritegno; chi si definisce bisex perché è sposato (magari con prole abbandonata al caso) e mostra la foto del matrimonio accanto all’organo o al deretano in presa diretta su web cam, cosa volete che sappia della condizione umana?

La mamma non ha detto loro niente, per cui si aggirano nel regno virtuale sotto incantesimo di amortalità, con l’egocentrismo e il calcolo degli spacciatori di ambiguità e impostura, per giunta sentendosi buoni e ingenui.

Non ci si lasci ingannare: per lo più sono miserabili che vivono al di sopra delle loro possibilità sui trampoli forniti dal mercato e dalla tecnologia. In pratica chiedono l’elemosina e si cibano di briciole, eppure si atteggiano a gran signori della socializzazione.

Non sarebbe meglio leggere le fiabe di Andersen o dei Fratelli Grimm?! Anche per gli eterni ragazzi, lì c’è tutto quel che occorre e va capito, non nei motori di ricerca. A cosa serve invecchiare, se non si matura mai?

Grazie a codesta brava gente (capace di tutto, tranne che di far sul serio) gli omosessuali continuano a non esistere socialmente e non ne resta traccia, neanche le ceneri: non muoiono in tal caso poiché non son mai venuti al mondo, “perché non può morir chi non è vivo”, come recita un madrigale di Monteverdi.

Quarto episodio

Per una lettura rilassante un giallo è l’ideale. Inoltrandomi nel romanzo di Gianni Farinetti In piena notte (2002) mi imbatto, con sorpresa mista a imbarazzo, in un omaggio alle cosiddette vittime dell’Aids non proprio riuscito, anzi discutibile.

Nel capitolo 5 del Libro Primo si descrive la cerimonia di commemorazione “Le coperte dei Nomi”, in ricordo delle persone morte di Aids, con una menzione speciale quale organizzatore dell’evento a Torino per Enzo Cucco, amico in carne e ossa dello scrittore.

In verità, si parla di International Aids Memorial Quilt, perché fa più chic, dà quel tocco di mondanità e esterofilia che distoglie dalla scabrosità del tema e dalla marginalità dei soggetti (deboli) coinvolti, ponendo in ombra patologie, solitudini, disperazioni.

La protagonista lavora nell’agenzia che si è occupata della campagna pubblicitaria, non mancano perciò telecamere, giornalisti, sindaco. La folla c’è, quel che conta tuttavia è che siano convenuti “politici, artisti, scrittori, ragazzi americani dell’organizzazione, altri stranieri, una celebre attrice, un calciatore seguito da due guardie del corpo”.

Merita la citazione lo scambio tra i bambini e la madre attiva nel volontariato: “Ma di chi sono queste coperte, mamma?”, “Di persone che non ci sono più. Sono state disegnate o ricamate dai loro amici (...) Le stendono a terra così che tutti possano vederle e ricordare quelle persone”. La figlia commenta: “Potevano metterle su un prato”.

L’autore più avanti spiega: “È nella tradizione dei gruppi di solidarietà invitare i sostenitori dell’iniziativa a leggere semplicemente alcuni nomi di persone morte di Aids, un modo per ricordare gli amici e, simbolicamente, tutte le persone che non ci son più”. Non si fanno cognomi, soltanto “nomi comuni, di tutti”. E alla fine “il pubblico può firmare i lenzuoli bianchi ai lati”.

D’accordo, Farinetti ha voluto a modo suo siglare il registro delle condoglianze e far arrivare sulla spiaggia della maggioranza la bottiglia col messaggio dimenticata dalla stessa minoranza. Fa sorridere la precisazione iniziale di prammatica: “Personaggi, vicende e luoghi di questo romanzo sono – quasi tutti – di pura invenzione”. Mi si consenta di contestare, in quanto persona informata sui fatti e testimone oculare: un simile quadro non è neanche retorico, è fiction distratta, documentario tedioso di chi assolve a un obbligo burocratico (se questa è la memoria storica di chi pure assisteva da lontano…).

Da parecchio ripeto ai pochi ex-commilitoni che ogni tanto intravedo: togliete quelle coperte dall’asfalto e dal selciato metropolitano, proteggetele dall’indifferenza dei passanti e dalla reverenza ipocrita dei sentimentali (nel frattempo le autorità si sono dileguate da quando non ci son più fondi e non si finisce sui giornali), riponetele e custoditele in ambiti appropriati, affinché siano onorate dalla effettiva volontà di essere presenti; non lasciatele in balia della estemporaneità o del comunicato di partito, sottraetele a chi dà un’occhiata e va per la sua strada o si ferma ad "emozionarsi" (“Ah, è l’Aids!”).

E i volenterosi spauriti o spiritati delle ONG lascino perdere se non hanno buoni motivi ma solo buone intenzioni, sappiano farsi da parte, lasciando il posto a qualcun altro o a nessuno.

Con Ungaretti verrebbe da esclamare: "Cessate d’uccidere i morti", perché, se i defunti dell’Aids non si possono nominare fino in fondo, non è per pudore o rispetto della privacy, bensì perché il glamour è riservato a infettivologi, madrine e testimonial di galà “benefici”, attivisti sponsorizzati da case farmaceutiche.

Eppure, i vecchi malati deceduti tra sperimentazioni azzardate, tiri al bersaglio, assalti assistenzialistici non avevano avuto scelta, non si può neppure asserire che se la fossero “cercata”.

Per riparare, ne elenco qui una decina, benché potrei rammentarne un centinaio, senza omissis: Enrico Barzaghi (sua la prima “coperta”, tessuta dalla madre per venire esposta, solitaria, al Convegno Nazionale delle Persone Sieropositive nel settembre 1990), Mario Borgognone, Mario Caferra, Alessandro Casula, Pietro Cocchetti, Pietro D’Onofrio, Claudio Iannacchero, Stefano Marcoaldi, Franco Pozzato, Paolo Spallino.

Epilogo

Sì, l’Aids ha avuto e l’Hiv continua ad avere potere suggestivo per i significati impliciti e i rimandi culturali latenti. Che ci sia bisogno dell’Aids per riflettere sul male di vivere e sui limiti, è comunque la misura dell’insignificanza o della viltà dei contemporanei, a cominciare dagli omosessuali, e dei sopravvissuti senza merito.

Ho in mente un’opera emblematica di M.C. Escher: Occhio (1946), che riproduce un occhio ingrandito in uno specchio concavo, nella cui pupilla si riflette un teschio, perché la morte è ciò da cui siamo tutti “guardati”.

Di sicuro è comodo adagiarsi nell’ignoranza e attribuire tutto il bene e il male alla “fortuna”, vivere momento per momento o alla giornata (credendo sia un’applicazione del carpe diem). Ed è altresì agevole professare una cura di sé estetica o un impegno sociale a ore.

La “correttezza degli stili di vita” in versione sanitaria (la medicina massificata al posto dell’etica e del civismo) non è e non può essere una finalità per l’uomo. Se mai, la salute, come il denaro, è un mezzo.

A ciascuno il compito della ricerca di senso o non senso su temi quali conoscenza identità integrità, per affermare infine come il poeta Pablo Neruda nel suo componimento conclusivo “Confesso che ho vissuto”.
Per educare l’umanità in noi è indispensabile pensare al futuro, proiettarsi in avanti, il che significa prendere in considerazione la propria fine.

Proposta: organizzare, in sostituzione di vacanze di grido o di suspiria in Versilia e a Lido di Classe, settimane riabilitative ad Ischia. No, non per i trattamenti termali. Sulla sommità dell’isolotto su cui sorge l’imponente Castello aragonese si trova il Convento delle Clarisse fondato nel 1575, adiacente alla Chiesa dell’Immacolata.

Una scala dà accesso al cimitero sotterraneo, ove le monache meditavano sulla morte inginocchiate dinanzi ai cadaveri in decomposizione delle consorelle sistemati su sedili di pietra. Macabro lo definisce la guida turistica.

All’uscita si viene avvolti dalla luce abbagliante del sole, lo sguardo può spaziare su un orizzonte infinito, tra l’azzurro del cielo e il blu del mare. Dopo, non si diventa migliori o peggiori, si viene solamente messi a tacere per un po’.

Epitaffio
"Io penso talvolta che vita, che vita sarebbe la mia,
se già la Signora vestita di nulla non fosse per via.
Io penso talvolta…”
(Guido Gozzano, L’ipotesi, 1907)

Mattia Morretta (sito Web Omonomia, 2009)