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Gli Ambulatori di Screening per HIV e MTS

L'importanza sociale e politica dell'Hiv ha comportato in tempi recenti, tra l'altre cose, la ristrutturazione dei servizi dedicati alle malattie a trasmissione sessuale, riunendo sotto lo stesso tetto e capitolo strutture e risorse a lungo divise e persino non comunicanti.

Dopo aver resistito alle rivoluzioni farmacologiche e di costume, i vecchi dispensari dermoceltici (altra epoca e altra lingua), deputati a diagnosticare e curare le tradizionali patologie veneree, dal 1985 si sono trovati a fronteggiare alla bell'e meglio la marea del fenomeno Aids, la quale pur incanalata dalle autorità sanitarie verso specifici Centri di screening ha traboccato in ogni direzione, in pratica ovunque fosse possibile ottenere esami per il lato oscuro del sesso post-moderno.

A lungo l'Hiv ha tenuto da solo la scena e costituito una priorità assoluta, configurando una situazione anomala anche per la sanità pubblica, in termini di finanziamenti di progetti di prevenzione e di prestazioni erogate gratuitamente.

A distanza di anni di "lotta all'Aids", più o meno inutile e pretestuosa, complice il ridimensionamento dell'epidemia e della attenzione mediatica, si è gradualmente passati a considerare nel suo complesso la questione delle infezioni a trasmissione sessuale e a unificare i servizi dedicati.

Le anomalie e i guasti prodotti dall'Aids come evento epocale sono tuttavia difficili da correggere e superare, anche perché manca una vera presa di distanza critica da quanto attuato sin qui a testa bassa da attori pubblici e privati, oltre a difettare un approccio culturale alla tematica delle conseguenze sanitarie del comportamento sessuale.

Anche in paesi di provincia esistono Ambulatori facenti capo alle ASL e con funzioni di diagnosi e cura, nonché "prevenzione", delle MTS. Pertanto, per dar prova di senso civico mi sono recato in uno di tali strutture, ove l'accesso è possibile direttamente in certi giorni in date fasce orarie, altrimenti si può fissare un appuntamento in altri orari.

L'intero percorso nel servizio, dall'iniziale contatto telefonico con il medico al ritiro del referto nell'arco di due giorni dal prelievo (quasi un record), è segnato indelebilmente dalla versione operativa banalizzata e di pura facciata del cosiddetto counselling, applicato e imposto in numerosi centri analoghi, senza pietà né varianti, da schiere di operatori che hanno frequentato i corsi di formazione realizzati un po' dappertutto nell'ultimo decennio.

Il linguaggio usato, l'atteggiamento in generale e nel particolare, i contenuti del rapporto medico-paziente, o meglio la loro sostanziale assenza a vantaggio di un copione preordinato e minimalistico, i messaggi antisociali di fondo veicolati quasi inconsapevolmente, tutto fa meditare sul male derivato dalle buone intenzioni con cui ciascuno di noi ha creduto di agire nella società civile intorno al nodo dell'Aids.

L'utente è accolto con ogni cortesia e facilitazione a patto, paradossalmente, che si trasformi in un individuo anonimo e ambiguo, diffidente e reticente per principio nei confronti delle istituzioni sanitarie, parassita egocentrico e calcolatore per poter pretendere prestazioni senza contropartite di sorta.

Chi si avvicina è perciò autorizzato a non presentarsi quale cittadino comune, quando non è forzato dalle circostanze a indossare i panni del soggetto "tipico" con condotte a rischio non meglio definite ed esigenze di non coinvolgimento, sbrigatività e impersonalità.

L'unica preoccupazione dei sanitari sembra quella di "andare incontro" all'utenza, quasi ringraziandola per aver scelto la tal struttura (come nel turismo e nei trasporti - d'altronde, non si dice che gli ospedali devono essere gestiti con le stesse modalità degli hotel?!), risultarle graditi non ponendola in alcun modo a disagio o in difficoltà, magari con domande troppo personali o intime (le formule usate sono da manualetto divulgativo).

Si ha la sensazione che nel gioco delle parti il senso di colpa sia trasmigrato dall'utente all'operatore, al punto che è quest'ultimo a sentirsi in imbarazzo per il ruolo di controllore della salute e per la necessità di porre alcuni quesiti, per altro funzionali alla compilazione di schede standardizzate, carta straccia inservibile per indagini di qualunque genere.

In realtà, si ha a che fare con una delle tante repliche della commedia della salute contemporanea, il cui scopo recondito è una sostanziale de-responsabilizzazione e il cui esito è la superficialità di ogni interazione umana pur nel contesto del dolore.

E dunque, fisso (si fa per dire) al telefono un appuntamento per il tal giorno, ma in pratica non devo fornire neppure un nome, è un accordo "a voce" e di massima, non c'è un orario stabilito con precisione e del resto per quale persona?

Il medico responsabile ci tiene a far capire che da parte loro c'è il massimo di disponibilità (per che cosa? e, a ben pensarci, perché?), tanto che non chiede quale sia il motivo della richiesta di esami e non informa sui tempi occorrenti per ritenere attendibili gli esiti.

In sede, nella sala d'attesa, mi annunciano il clima gli opuscoli sparsi qua e là rivolti per lo più agli Hiv positivi (che equivoco e che povertà di contenuti!).

Il colloquio enfatizza la politica di "accoglienza" e "porte aperte": l'utente ha il diritto di non dire niente e di parlare solo in presenza del proprio avvocato, anzi ha il dovere di attenersi alla prescrizione ufficiale dell'anonimato, nel suo interesse, stabilito a priori e una volta per tutte da chi ha tanto studiato per aver cura di lui.

Pertanto, è inutile ch'io insista per fornire nome e cognome e altre informazioni di base, non avendo nulla da nascondere e soprattutto trattandosi di una sede sanitaria (la riservatezza non è un attributo della relazione in ambito medico? e non preesiste da secoli a tutte le norme contemporanee sulla presunta privacy?!).

Sulla cartella e sulla provetta di sangue comparirà solo quel nominativo indicato a scelta dal prelevato.
Non c'è bisogno di chiarire i comportamenti sessuali e con quali tipologie di partner, men che meno va definito l'orientamento sessuale; gli unici dati raccolti sono quelli forniti spontaneamente, non c'è anamnesi né verifica delle conoscenze possedute sull'argomento infezioni a trasmissione sessuale ("Negli ultimi sei mesi ha avuto comportamenti a rischio?").

L'offerta di esami di controllo largheggia: "facciamo anche le epatiti A/B/C? Già che si fa un buco!", dice la sorridente e gentile infermiera, zelante dispensatrice di prodotti senza costo, che si spinge persino a chiedere se le sue chiacchiere non facciano perder tempo al sottoscritto, magari impegnato o con altri appuntamenti importanti (testuali parole).

Unica richiesta assurda nel mondo a rovescia dell'Anonima Prelievi è l'apposizione di una firma (in verità, lo stesso solitario nome indicato sulla scheda e sulla provetta!) per il consenso al prelievo per l'Hiv: "Purtroppo, in Italia lo prescrive la Legge".

Battaglia persa in partenza cercare di far capire che la Legge sull'Aids parla d'altro e che comunque non essendoci un'identificazione dell'individuo il nominativo apposto quale "firma" è un insulto all'intelligenza nonché aria fritta.
L'esito, viene precisato, non può essere dato per telefono (però, quando ci si conosce, col tempo, oppure quando si è in cura...).

Nell'incontro del ritiro si giunge al patetismo per la volontà di rassicurare a tutti i costi e di attenersi alle formulette della prevenzione in svendita: "Non si preoccupi, è tutto a posto" e "Se mi garantisce che negli ultimi sei mesi non ci sono stati rischi...".

Dopo aver firmato di nuovo, non senza vergogna, col nome di battesimo per il referto dell'Hiv (quando si dice recitare la parte fino in fondo), sono uscito con uno stato d'animo improntato alla demoralizzazione al pensiero della china assunta dal sistema, che pure sulla carta è trionfante.

Civiltà del self-service, l'ha chiamata qualcuno, molti anni or sono. Civiltà?!

Mattia Morretta (ottobre 2005)