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L'insostenibile leggerezza di Dalida, trent’anni dopo l’addio
Anticipazione del saggio Viva Dalida. Icona immortale

Dalida chanteuse et comédienne, recita la targa della piazza che le è stata intitolata nel cuore di Montmartre nel 1997. Nella capitale francese Iolanda Gigliotti, in arte Dalida, era arrivata dal Cairo, luogo natale, nel dicembre del 1954, poco dopo esser stata eletta Miss Egitto, sperando di far fortuna come attrice e modella.

La ventunenne portava in valigia, insieme ai sogni di affermazione, le radici dell’emigrazione meridionale, essendo nata il 17 gennaio del 1933 in un sobborgo cairota da genitori calabresi trasferitisi per necessità. Alle spalle un’infanzia segnata da una malattia agli occhi esitata in strabismo definitivo e dalla perdita del papà, deceduto quando lei aveva dodici anni.

Agli inizi si era fatta notare come cantante melodica convenzionale, calcando i tratti esotici dell’aspetto e della voce, riproponendo brani altrui secondo la moda del momento. Soltanto gradualmente aveva trovato la sua identità artistica irripetibile, che includeva la maschera tragica preludio di quella funebre.

Il lavoro e il privato erano stati sin dalla partenza intimamente mescolati, un vero affare di famiglia, con i parenti più stretti alle spalle e il ruolo fondamentale nel lancio discografico del marito Lucien Morisse (sposato nel 1961). Bruno, il fratello minore, dopo aver tentato di fare a sua volta il cantante col nome di Orlando, era diventato in pratica la sua ombra e in seguito il suo manager a tutto tondo, regista dello spettacolo e del dietro le quinte.

Nel nostro Paese Dalida si era ritagliata uno spazio di popolarità a fine anni Sessanta, purtroppo intrecciata con la tragedia del suicidio di Tenco durante il Festival di Sanremo del 1967, col quale interpretava il noto brano Ciao amore ciao. Un mese dopo in un albergo parigino aveva lei stessa tentato di togliersi la vita afflitta da un grave stato depressivo.

Nevrosi personale e temperamento artistico, il clima sociale e culturale di un’età di confine hanno poi contribuito a generare un personaggio quasi leggendario lungo gli anni Settanta e Ottanta, facendone la “faraona” della scena, la Callas del varietà, la Magnani della canzone, con centoventi milioni di dischi venduti in trent’anni di carriera, settanta dischi d’oro in sette lingue, due di platino e uno di diamante.

Il suo repertorio è diventato via via pressoché autobiografico, centrato sul suo riflesso speculare, costringendola a rappresentare un’entità immaginaria, mentre la donna languiva nel senso di fallimento e solitudine.

Manovrata da una corte dispotica, pullulante di gay creativi, strumentalizzata pure sul piano politico (dal presidente egiziano Sadat a quello francese Mitterand), incalzata da Bruno-Orlando affinché producesse a ritmo continuo, l’interessata si è convinta che l’unica via d’uscita e opportunità di libera scelta fosse farla finita.
Difatti, nella notte tra il 2 e il 3 maggio del 1987 Dalida ha messo in atto con cura un piano programmato da tempo.

In Italia, che l’ha dimenticata con la scusa dell’adozione francese, l’unico autentico omaggio le è stato tributato nel decennale da Paolo Limiti con lo speciale Dalida, Amore mio, andato in onda su Rai 2 con in studio il fratello; in libreria è in pratica disponibile poco al di là del saggio di Giandomenico Curi Dalida – La voce e l’anima del 2005.
Riusciti a metà i due film a lei dedicati, uno nel 2005 di Joyce Bunuel (con Sabrina Ferilli) e uno nel 2016 di Liza Azuleos (con Sveva Alviti).

A Parigi il trentennale è stato celebrato con varie iniziative: dalla mostra al Palais Galliera Dalida, la garde-robe de la ville à la scène (che dal 27 aprile al 13 agosto ha proposto la ricca collezione dei suoi più famosi abiti di scena), alla pubblicazione di nuovi libri e raffinati cofanetti di CD, DVD e vinili. In autunno si tiene il raduno-evento 1987-2017 Dalida 30 ans dejà organizzato dal fan club Dalida Forever.

La sua figura di artista e donna non ha finora ricevuto il meritato approfondimento, specie riguardo all’aspetto della sua elezione a icona della comunità gay a livello internazionale. È infatti agli omosessuali che si deve la fedeltà più sentita e convinta alla sua memoria.

Eppure, Dalida può esser considerata una delle ultime Imago femminili del palcoscenico, grazie ai riferimenti all’assoluto nell’arte e nella cultura di un mondo oramai superato, poiché il relativismo odierno consente al massimo la produzione seriale di immaginette a misura di fan commerciali.

Nel 2023 io non ci sarò più, ma tu mi cercherai nell’infinito (Nel 2023, di Pace/Evans, 1969).

Mattia Morretta
Rivista AMEDIT, settembre 2017