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La dimensione psicologica dell’AIDS
Università degli Studi di Milano, Scuola di Specializzazione in Psichiatria, 1987

Meccanismi di difesa

In tutto il suo decorso l’Aids è costellata da problematiche psichiche. L’esordio dei vari sintomi fisici è sempre accompagnato dalla paura di sviluppare la malattia, tanto più è diffusa la conoscenza di essa.

Per alcuni la diagnosi risulta, temporaneamente e paradossalmente, una specie di sollievo. Poi, con la presa di coscienza del significato della diagnosi, i sintomi psicologici ricompaiono.

Ansia e depressione sono in primo piano e creano problemi di gestione altrettanto gravi dei sintomi fisici, in molti momenti senz’altro più gravi.
Insonnia, agitazione, attacchi di panico, si alternano con tristezza, disperazione e isolamento.

Il suicidio, in ragione della previsione di una progressione verso sofferenza e morte, viene preso in considerazione da molti. Alcuni lo tentano, ma solo pochi lo attuano in modo efficace.

Le preoccupazioni a proposito dell’esito dell’infezione dominano completamente il periodo iniziale. Da un ambito realistico esse spesso sconfinano in quello irrealistico, venendo sostituite da una sensibilità esagerata e da una franca ipocondria, tanto che ogni nuovo sintomo diviene segnale dell’avvicinarsi della morte.

Sapere troppo espone la persona alla coscienza di un ulteriore mancanza di controllo sulla situazione. Ciò spiega in parte il massiccio ricorso alla “negazione” come meccanismo di difesa. Con la negazione si crea una specie di “punto cieco” nella coscienza, in modo tale che l’individuo non riesce a riconoscere la realtà di un dato evento.
Essa si esprime in proposizioni del tipo “non può essere vero ch’io sia colpito dall’Aids”, oppure “io non sarò il primo a vincere questa malattia”.

Il diniego riveste grande importanza dal punto di vista psicologico e psicoterapico, perché aiuta i pazienti a conservare una positiva qualità della vita e permette loro di sentirsi “ integri ”, cioè non frammentarsi o smembrati. Per questo la negazione come meccanismo difensivo non viene contestata, se non quando compromette il trattamento, quando porta alla fuga totale dalla realtà e al rifiuto di considerare il bisogno di aiuto.

Ogni individuo ha dei tempi per riuscire ad “aprire gli occhi” e ad accettare la verità. Così, solo dopo un certo periodo si fa strada la possibilità di affrontare direttamente la prognosi, senza più il cuscinetto respingente della negazione o utilizzandolo in modo diverso per un ruolo positivo nella malattia.
La persona deve essere in grado di confrontarsi con la propria morte, e se non lo è ancora, è inutile e controproducente forzare la sua consapevolezza.

I malati di Aids condividono tutte le problematiche tipiche dei malati terminali, per cui si considerano validi gli stadi emozionali descritti da E. Kubler-Ross.

Questi stadi in genere coesistono e si sovrappongono, poiché c’è una fluttuazione continua dall’uno all’altro, anche nella stessa giornata. Essi, inoltre, sono necessari per un adeguato adattamento psicologico.

Il diniego (“non io, non può essere vero”) è la prima e più primitiva modalità di risposta, in quanto anche lo shock iniziale può essere interpretato come una forma speciale di negazione in cui è l’identità della persona ad essere messa in dubbio invece della realtà.

La negazione portata all’eccesso ha conseguenze negative, perché conduce a non riconoscere alcun bisogno di assistenza medica e di supporto psicologico, oltre ad impedire di attuare i cambiamenti utili nello stile di vita.

L’isolamento è un altro tentativo di difesa messo in atto da molti pazienti, che si chiudono in se stessi, rifuggendo da ogni interesse e ogni contatto umano, abolendo le comunicazioni con l’estero. Alcuni autori hanno definito “segno del lenzuolo” l’atteggiamento per cui l’individuo si nasconde sotto il lenzuolo in senso metaforico e concreto, bloccando ogni transazione con la realtà esterna.
Ciò non fa ben sperare per il suo stato non solo psichico ma anche fisico, perché configura una “rinuncia” ancor più pericolosa di allarmanti referti patologici.

“Perché proprio io?” è un interrogativo che i pazienti si pongono invariabilmente nel tentativo di spiegarsi come mai siano stati “ scelti “ loro e non altri per tale funesta malattia. Perché altri con uno stile di vita identico non sono malati e continuano a stare bene?
Componenti invidiose affiorano esplicitamente, oppure si nascondono dietro improvvise preoccupazioni per altri e una nuova “bontà”.

La rabbia che motiva molti simili quesiti viene a volte rimossa e proiettata fuori di sé, in modo che l’individuo si aspetta di essere bersagliato dagli altri, sottoposto a violenze e cattiverie. Per così dire, è sempre sul “chi va là”, pronto a scattare come un grilletto.

Un enorme riserva di collera si accumula in queste condizioni e viene a più riprese scaricata all’esterno contro gli amanti, i partner del passato, la famiglia, il personale sanitario, la società, il governo. Inclini alla rabbia sono soprattutto quelli che si considerano vittime “innocenti” dell’infezione e non sanno trovare un motivo accettabile per spiegarsi il loro stato, se non l’imprudenza o l’errore estemporaneo.

Colpa e accettazione

Motivi di colpevolezza sono facili da rinvenire per chiunque nella propria esistenza, e in particolare per chi già in precedenza sentiva su di sé il peso del pregiudizio e della disapprovazione familiare e sociale per i propri comportamenti.

Per i gay è quasi la norma sviluppare in una fase della loro vita un desiderio di “normalità”, spesso erroneamente interpretato come desiderio di eterosessualità, proprio a causa dei disagi e dei problemi originati dallo stato di “disarmonia” con le regole e le tradizioni culturali in campo sessuale.

Un’ambivalenza sotterranea inquina spesso anche le scelte apparentemente più esplicite in senso gay, in virtù dell’interiorizzazione della omofobia socio-ambientale.
Pertanto, un certo grado di “ego-distonia” è quasi sempre presente negli omosessuali e ciò comporta che il modo di essere e di agire non sia mai del tutto stimato.

Questa inquietudine di fondo lievita sotto l’influsso di una malattia indicata, anche pubblicamente e da autorità religiose, come una “punizione” per una certa maniera di vivere la sessualità o tout court per un dato tipo di individui.

Tutti i conflitti e le ambiguità preesistenti con le famiglie, i coniugi e i conoscenti, intorno al tema dell’orientamento sessuale, vengono fatti esplodere dall’Aids che opera uno smascheramento impietoso e definitivo.
Così, coloro il cui stile di vita non era a conoscenza di familiari o amici, sono sottoposti ad una addizionale fonte di tensione.

Non è certo questo il momento migliore per affrontare una discussione evitata per anni, anche se, talora, la malattia può diventare una occasione di approfondimento dei legami parentali o di riconciliazione con i propri congiunti.
Reazioni negative, sovente violente e disintegrative, sono naturalmente frequenti fra i familiari e allora una risorsa importante di supporto viene a mancare proprio quando sarebbe essenziale.

Peccati e colpe sono tematiche che abbondano comunque nei discorsi dei pazienti e, quando non è l’omosessualità o l’uso di droghe, sono la promiscuità, la dissolutezza, la superficialità del modo di vivere in precedenza l’oggetto dei sentimenti di colpa. Il fatto di aver trasmesso l’infezione a qualche altra persona, oppure l’idea di essere responsabile di un contagio ai danni di partner ignari o “innocenti”, accentuano l’elemento della colpevolezza, che può esser così grave da far regredire l’individuo ad un totale diniego per difendersi da un peso insopportabile.

La tristezza che deriva da certe ruminazioni conduce poi ad una vera depressione, in cui è in primo piano il senso di una grande e irrimediabile perdita che si sostituisce alla insensibilità stoica e alla collera.
Questo “lutto” è davvero importante ed è necessario che la persona possa provarlo, in quanto risulta preparatorio ed utile per l’evoluzione psichica verso la accettazione.

È però possibile che la depressione sia tanto profonda da portare i malati a smettere di nutrirsi e a pensare con insistenza al suicidio, in base alla ossessionante percezione dello sfacelo e del fallimento.
Fissazioni sul passato, sulla colpa, sulle limitazioni gravi imposte dalla malattia, si fondono in un’altalena di “cattivi pensieri” senza vie d’uscita.

Si ritiene che pressoché tutte le persone, che hanno avuto sufficiente tempo a disposizione, giungano allo stadio della accettazione, in cui non vi sono né rabbia né depressione, ma uno stato di fondamentale compostezza.
All’avvicinarsi della morte, infine, il paziente è rassegnato e semplicemente aspetta.

Coloro che riescono a trovare un equilibrio in mezzo a tante occasioni di stress sono di notevole aiuto per gli altri, rappresentando un esempio concreto della possibilità di vivere fino in fondo con dignità.

Il dottor Ken Wein, direttore dei servizi psicologici del Gay Men’s Health Crisis, afferma: “Ho visto parecchi pazienti in grado di farcela, di abbandonare i pensieri ossessivi, le ruminazioni interne. Si sta parlando di una persona a cui è stato detto che nel giro di pochi anni sarà probabilmente morta, una persona che è improvvisamente diventata vecchia di 80 anni. Bisogna essere un tipo speciale per adattarsi a questo, e io credo che sia l’eccezione piuttosto che la regola”.

In effetti, l’inguaribilità, l’isolamento e le preoccupazioni economiche producono reazioni psicologiche che a loro volta amplificano i problemi di base, in un circolo vizioso che si auto-alimenta.

Mattia Morretta (1987)