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Psicoterapia e omosessualità

Per psichiatri e psicologi spiegare è stato per decenni un modo per poter evitare di capire e di prendere sul serio il vissuto dei pazienti-clienti omosessuali. Ancor oggi non mancano tecnici della salute mentale che trovano tonificante per la loro autostima “avere in cura” un omosessuale.

L'unico cambiamento rispetto al passato è che la prepotenza terapeutica è appannaggio di carbonari un po' pavidi e un po' scaltri: non è più di moda, ed è pertanto sconveniente, dichiarare apertamente di voler guarire gli omosessuali; nulla vieta però di praticare il miracolo di nascosto e in privato, meglio ancora se su richiesta dei malati.

Va detto che la gran parte dei terapeuti si dibatte in laceranti interrogativi che esitano in mutismo, apparente disinvoltura o esplicita contraddittorietà.

Istruiti e abituati a usare il linguaggio della patologia e del disturbo, essi si sono trovati letteralmente senza parole di fronte al declino della letteratura psicoanalitica sull'argomento e al sorgere di modelli più conoscitivi che interpretativi in un contesto sociale improntato alla tolleranza, almeno a prima vista.

Pressoché scomparsa dalla scena la corrente reazionaria della psicologia, che biasimava duramente gli omosessuali riluttanti a farsi curare, si è trovata a fare da protagonista una corrente progressista che ieri compiangeva gli omosessuali incapaci di accettarsi e oggi preferisce ignorarli.

Alcuni si sono riciclati e mirano a far raggiungere ai loro clienti omosessuali il benessere estetico e l'assertività oramai irrinunciabili nella modernità occidentale, soprassedendo su eventuali domande di senso, e quindi il piano dei valori e della morale. Così si arriva a pretendere di promuovere la salute incoraggiando la leggerezza e la disinvoltura sulle fondamentali problematiche dell'identità.

Restare alla superficie della questione diviene un altro modo di negare legittimità e consistenza alla specificità dell'esperienza, proprio mediante il rifiuto diretto o indiretto di farsi carico della sofferenza della persona omosessuale.

I terapeuti per lo più oscillano tra i sorrisi di circostanza e l'espressione accigliata e seria. Nel primo caso lasciano intendere d'essere d'accordo, “ovviamente”, riguardo alla promozione degli omosessuali al livello della normalità; nel secondo caso cercano di comunicare di non poter condividere la non chalance dominante sull'argomento, ma mirano soprattutto a garantirsi il silenzio.

Tutto o quasi cambia quando sono posti con le spalle al muro dalla necessità di pronunciarsi nel merito. Come la maggior parte delle persone, sono in grado di mostrare apertura e disponibilità finché non vengono interrogati o invitati ad esprimere un parere in proposito.

La domanda su cosa si pensa dell'omosessualità agisce come un sasso gettato in uno specchio d'acqua apparentemente limpida: ecco affiorare giudizi e pregiudizi, pseudo-opinioni prese a prestito dal senso comune o dal manuale divulgativo.

E. M Forster l’ha espresso con chiarezza: "quanto l'uomo della strada aborrisce effettivamente non è la cosa in sé, bensì la necessità di pensarvi" (nota del sett. 1960, Maurice).

I più raffinati tra gli psicoterapeuti eterosessuali sono capaci di sfoderare un armamentario interpretativo antiquato ma di prim'ordine, almeno per arroganza e violenza. Qualcuno si arrampica sui vetri del disadattamento manifesto di molti omosessuali che chiedono “guarigioni” per poter giustificare il proprio intervento terapeutico.

Incontrando la persona omosessuale in una fase di difficoltà o di crisi, il terapeuta può sentirsi tentato di fare qualcosa per alleviare il disagio operando nella direzione che sembra più praticabile, cioè la messa in discussione dell'orientamento sessuale.

Un desiderio di salute, equilibrio e normalità viene scambiato per e con un'esigenza di eterosessualità, poiché solo quest'ultima viene concepita quale paradigma del benessere psicofisico.

Si arriva così a pretendere di potenziare la dinamica eterosessuale dell'individuo dando per scontata, e quindi ignorando, quella omosessuale per il solo fatto che è in primo piano, mentre sappiamo bene che la profondità viene spesso nascosta alla superficie.
Per inciso, va ricordato che nessuno prevede di potenziare l'omosessualità (psichica) nei pazienti eterosessuali dichiarati!

D'altronde, Jacques Lacan ha scritto: “Lasciare l'Altro al suo modo di godimento sarebbe possibile solo a condizione di non voler imporre ad esso il nostro, di non considerarlo un sottosviluppato” (Télévision , 1973).
Non c'è nulla di più facile nel settore del disagio psichico dell'arroccamento dietro la diagnosi nella torre d'avorio del modello interpretativo.

La comunicazione tra paziente omosessuale e terapeuta rischia pertanto di correre su un binario sadomasochista, in quanto l’omosessuale sperimenta come proprio il desiderio gregario di conoscere le cause e può arrivare a domandare “la cura” a un terapeuta che risponde con piacere, poiché non aspetta altro che vedere confermato il diritto ad esercitare il potere di identificare la patologia.

Così molti omosessuali manifestano una comprensibile diffidenza verso la psicoterapia e la presunta oggettività del discorso analitico: “Ma ti rendi conto? Decidono che se preferisci il melone alle prugne bisogna immediatamente costruire un romanzo familiare che spieghi la mostruosità” (D. Fernandez, La stella rosa , 1980).

La psicoanalisi ha sottratto il problema dell'omosessualità alla medicina, purtroppo, per lo meno in molti casi, solo per rivendicarne la proprietà affermandone la natura di disturbo della personalità o il carattere di immaturità.

Simone de Beauvoir ha giustamente sostenuto che la divulgazione analitica ha condotto a considerare l’omosessualità sempre un atteggiamento inautentico.

Quale terapeuta eterosessuale in effetti non cede alla tentazione di interrogativi avvertiti come del tutto leciti o addirittura doverosi? Di fronte al paziente che dichiara di essere omosessuale o di avere/aver avuto esperienze omosessuali, sembra spontaneo o necessario domandarsi non tanto e non solo “perché?”, quanto soprattutto “fino a che punto è vero? si tratta di esperienze autentiche?”.

Paradossalmente, di converso, ogni fantasia o attività di tipo omosessuale rischia di sollevare sospetti di scabrosità psicologiche profonde, indizio o indice di turbe dello sviluppo capaci di pregiudicare l'accesso alla auspicata maturità.

I terapeuti paiono disposti a passar sopra a molte maturazioni approssimative, per non dire presunte, quando valutano i fallimenti sessuali ed affettivi dei loro pazienti eterosessuali.

Sanno essere molto indulgenti nel giudizio sulla pseudo-genitalità del funzionamento nel coito e schiudono le porte dell'Olimpo della normalità a chiunque aspiri a conquistare la “posizione del missionario”, cioè purché sia fatta salva la possibilità di accoppiamento pur saltuario o occasionale tra i due sessi.

Strano slittamento nel pragmatismo più bieco per un modello epistemologico che dovrebbe privilegiare la dimensione rappresentativa e simbolica! Ma le contraddizioni non hanno mai spaventato gli psicoanalisti.

Risulta evidente che ai terapeuti di qualunque orientamento va chiesto anzitutto di rinnovare la disponibilità a conoscere in modo approfondito e interrogarsi sulle modalità di elaborazione del pensiero sulla problematica. Occorre sciogliere ogni riserva con un serio lavoro personale sul piano dell'attitudine e delle categorie di comprensione del reale.

Per poter fornire agli omosessuali una empatia profonda, sostanziale e autentica, capace di promuovere qualità identitaria si deve aver cura della sofferenza umana che accompagna la condizione e prenderne a cuore le sorti.

Ciò significa riconoscere l'omosessualità come un vero e proprio patrimonio dell'umanità da salvaguardare e tutelare. È necessario postulare con la mente e con il cuore l'esistenza di un'omosessualità sana, almeno in potenza, nello stesso modo con cui si fa credito all'eterosessualità di una dotazione di salute nonostante l'immensa miseria nevrotica che porta gli eterosessuali ad affollare gli studi di medici e psicologi.

Bisogna altresì applicarsi, non solo ideologicamente o a parole, a concepire la scelta oggettuale (capacità di amare superando uno schema narcisistico) indipendentemente dall’orientamento sessuale, non ritenendola quindi una esclusiva dell'eterosessualità, che infatti ne è spesso priva o carente.

Il riconoscimento dell’Altro, come soggetto che esiste con noi e non per noi, è diverso dalla presa d’atto della differenza sessuale a livello fisico e psichico.

Ogni destino individuale deriva e si alimenta di una successione di inibizioni adeguate. Molte di queste sono frutto ed espressione del sistema di autoregolazione della psiche, che opera al fine di consentire allo specifico individuo di tracciare e seguire il percorso che gli è più congeniale (coerente) nell'ambito di limiti appropriati.

Le inibizioni sono in tal senso al servizio di un “progetto di individuazione” che tende a rendere possibile la migliore realizzazione del potenziale umano di un determinata soggetto.

L'omosessualità come patrimonio antropologico si manifesta e ri-vela in forma recessiva negli eterosessuali e in forma dominante negli omosessuali. Gli uni tendono a umiliarla coprendola del fango della patologia e dell'innaturalità; gli altri la mortificano spesso riducendola a mero esercizio genitale o confinandola nel recinto del sentimentalismo (la coppia gay idealizzata quale affermazione a due).

In verità, la dinamica omosessuale e il desiderio omosessuale (nelle loro espressioni parziali o globali, nevrotiche o sane, narcisistiche o equilibrate) servono in ogni caso a vivere dimensioni essenziali della personalità. Il loro scopo, quindi, è di essere vissuti, ben al di là della concreta espressione sessuale.

Nell'omosessualità la persona ricerca molto più che la semplice soddisfazione degli "istinti”, qualcosa di più fondamentale del sesso: la propria realizzazione. La pratica sessuale e la relazione affettiva di tipo omosessuale individuano e rivelano sempre l'attivazione di una dinamica significativa a livello esistenziale e della psicologia del profondo.

Come tutti i gesti e le esperienze umane, tale dinamica possiede uno spessore simbolico che ne è la chiave di lettura e di senso per l'individuo e per la collettività.

Pertanto, gli omosessuali, prima ancora di essere incoraggiati a riconoscere anche l'altro sesso quale interlocutore, vanno aiutati a nutrire e a dare consistenza alla loro omosessualità: “L'omosessualità non è solo legata a dei contatti fisici o sentimentali, essa informa tutta la struttura dell'esistenza” (J.P.Aron, Il mio aids, 1991).

Gli omosessuali infatti soffrono della mancanza di un'etica propria, che superi l'adeguamento al Principio del Sapere, cioè la cristallizzazione implicita nella domanda: “chi sono? qual è il segreto del mio desiderio?”.

Come ha ben mostrato Michel Foucault, l'omosessuale che ricerca la verità su sé stesso nell'angusto spazio compreso tra predisposizione innata e condizionamento psico-sociale finisce per perdere la bussola dell'autenticità e per adattarsi a restare alla superficie del pregiudizio altrui scambiata per profondità propria.

C'è quindi un modo di voler sapere e richiedere aiuto o cure che produce soltanto accettazione del volto irrigidito dell'omosessualità.

Non si tratta di dire no all'analisi o all'inconscio, bensì di promuovere un lavoro sull'identità che inauguri nuove possibilità esistenziali e relazionali, che trasformino l'omosessualità in qualcosa di desiderabile superrandola come forma di desiderio.

Il fine della psicoterapia è, nelle parole di J.Lacan, accompagnare la persona fino al limite estatico del “tu sei questo” (eco occidentale dell'orientale tat tvam asi questo sei tu), ove si rivela la cifra del nostro destino mortale. In sostanza, il compito che ci spetta è di dire sì alla nostra totalità psicofisica.

Mattia Morretta
Articolo originale in Babilonia N.137, Ottobre 1995, titolo Sul lettino di Procruste