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7 Maggio 2019

Psicoterapia e persone omosessuali: Al di là del Principio del Sapere

"Gli omosessuali maschi, che nella nostra epoca hanno intrapreso un'energica azione contro le restrizioni che la legge impone alla loro attività erotica, amano farsi presentare dai loro portavoce teorici come una varietà sessuale originariamente distinta, come uno stadio sessuale intermedio, un terzo sesso..."
Sigmund Freud, Un ricordo d'infanzia di Leonardo da Vinci, 1910

Delineatasi nel XVIII secolo e ridefinitasi nel XIX, la psichiatrizzazione del piacere perverso è stata al contempo specificazione dei perversi. Istituito come oggetto privilegiato di “scienza” (accanto alla donna isterica, alla coppia malthusiana e al bambino masturbatore), il cosiddetto “omosessuale” è diventato terreno fertile per apprendisti stregoni sovente senza scrupoli e talora dichiaratamente malintenzionati, capaci di esibire disprezzo e ostilità verso i propri “pazienti” e tuttavia ritenersi nel giusto, neutrali e con la coscienza pulita!

Eppure, mai come nel caso dell'omosessualità la Volontà di Sapere (nei termini di Michel Foucault) ha mostrato tanto palesemente le sue complicità e contraddizioni nell'intento di sostenere concettualmente il sistema di controllo sociale.

Completamente trascurato, anche nel recente passato, rimane nodale il problema delle implicazioni culturali, sociali ed emozionali del particolare incontro tra un Soggetto supposto capace di “discorso vero” e un Oggetto di conoscenza cui viene concessa una modalità ecolalia di linguaggio, con l'unica opzione consentita tra nevrosi e perversione: “Non c'era modo di difendere quello che ero. Tutto quello per cui potevo combattere era il diritto che avevo di scegliermi il mio esilio e la mia distruzione” (E. White, Un giovane americano,1990).

La relazione intercorrente tra gli “studiosi” di omosessualità e l'omosessualità medesima ha seguito fino ad oggi un registro solo parzialmente scientifico, proprio a causa di un desiderio patente (più che latente) di rassicurazione, soddisfatto mediante la disintegrazione della soggettività autentica del “paziente omosessuale” e la creazione di una categoria cui ridurre la complessità umana di quest'ultimo.

Si rivela così il vizio di fondo (il peccato originale) della Ricerca: il già trovato è alle spalle, seppur segnato da qualcosa che appartiene all'ordine della dimenticanza, ed è in grado di pregiudicare la comprensione del fenomeno.

Non c'è dubbio, infatti, che, nella storia della nostra cultura, riconoscersi diversi ha comportato l'accettazione della svalorizzazione di sé: gli omosessuali sono meno uomini degli altri e molto più mortali.

Lo scientismo tradizionale ha preteso di diagnosticare in nome della Verità e ha in pratica operato secondo modalità esorcistiche che hanno caricato la diagnosi stessa di un significato apotropaico (padroneggiare e tenere a distanza il male), spesso inconscio.
Le “spiegazioni” dell'omosessualità, specialmente quelle fiorite nel periodo tra il 1950 e il 1970, si ammantano spudoratamente di potere ermeneutico finalizzato ad assoggettare i portatori di un'umanità scomoda deprivandoli in primis dell'anima, cioè non riconoscendoli quali esseri umani a pieno titolo.

Spiegare è stato per anni un modo per poter evitare di capire e di prendere sul serio il vissuto dei pazienti-clienti omosessuali. Ancor oggi molti “tecnici” della salute mentale trovano tonificante per la loro autostima raccogliere la sfida dell'esercizio di potenza nella cura di un omosessuale.

L'unica variazione rispetto al passato è che la “prepotenza terapeutica” ora è appannaggio di carbonari un po' pavidi e un po' scaltri: non è di moda, ed è pertanto sconveniente, dichiarare apertamente di voler guarire gli omosessuali; nulla vieta però di praticare il miracolo di nascosto e in privato, meglio se su richiesta – e nell'interesse – dei malati.

Va detto che la gran parte dei terapeuti si dibatte in laceranti interrogativi che esitano in mutismo, apparente savoir faire o esplicita contraddittorietà. Istruiti e abituati a usare il linguaggio della “patologia” e del “disturbo”, essi si sono trovati “senza parole” di fronte al declino della letteratura psicoanalitica sull'argomento e al parallelo sorgere di modelli più conoscitivi che interpretativi in un contesto sociale improntato alla tolleranza, almeno a prima vista.

Pressoché scomparsa dalla scena la corrente reazionaria della psicologia, che biasimava duramente gli omosessuali riluttanti a farsi curare, è diventata protagonista una corrente progressista che ieri compiangeva gli omosessuali incapaci di accettarsi e adesso preferisce ignorarli avendoli precipitosamente archiviati come “ex-casi clinici”.

Alcuni si sono riciclati e mirano a far conseguire ai loro clienti omosessuali il benessere estetico e l'assertività oramai irrinunciabili nella modernità occidentale, soprassedendo su eventuali domande di senso. Si arriva perciò a pretendere di promuovere la salute incoraggiando la leggerezza e la disinvoltura sulle fondamentali problematiche dell'identità.

Restare alla superficie della questione sarà dunque un altro modo di negare legittimità e consistenza alla specificità dell'esperienza, mediante il rifiuto diretto o indiretto di farsi carico della sofferenza della persona omosessuale.

I terapeuti per lo più oscillano tra i sorrisi di circostanza e l'espressione accigliata e seria. Nel primo caso lasciano intendere d'essere d'accordo, “ovviamente”, riguardo alla promozione degli omosessuali al rango di “normali”; nel secondo caso cercano di comunicare di non poter condividere la non chalance dominante sull'argomento, ma mirano soprattutto a garantirsi il silenzio.

Tutto o quasi cambia quando sono posti con le spalle al muro dalla necessità di pronunciarsi. Come la maggior parte delle persone, sono in grado di mostrare apertura e disponibilità finché non vengono interrogati e invitati ad esprimere un parere in proposito.

La domanda su cosa pensino dell'omosessualità agisce come un sasso gettato in uno specchio d'acqua apparentemente limpida; ecco affiorare giudizi e pregiudizi, pseudo-opinioni prese a prestito dal senso comune o dal manuale divulgativo: "quanto l'uomo della strada aborrisce effettivamente non è la cosa in sé, bensì la necessità di pensarvi" (E.M. Forster, nota del sett. 1960 a Maurice).

I più raffinati tra gli psicoterapeuti eterosessuali possono sfoderare un armamentario antiquato ma di prim'ordine quanto ad arroganza e violenza. Qualcuno si arrampica sui vetri del disadattamento manifesto di molti omosessuali che chiedono “guarigioni” per poter giustificare l'interventismo curativo.

Incontrando la persona omosessuale in una fase di difficoltà o di crisi, il terapeuta può sentirsi tentato di fare qualcosa per alleviare il disagio operando nella direzione che sembra più praticabile, cioè la messa in discussione dell'orientamento sessuale. Un desiderio di salute, equilibrio e normalità viene scambiato per e con un'esigenza di eterosessualità, poiché è quest'ultima il paradigma del benessere psicofisico.

Sicché si giunge a voler potenziare la dinamica eterosessuale dell'individuo dando per scontata, e quindi ignorando, quella omosessuale per il solo fatto che è in primo piano, mentre sappiamo bene che la profondità viene spesso nascosta in superficie (parafrasando Hugo von Hofmannsthal). Per inciso, va ricordato che nessuno prevede di potenziare l'omosessualità (psichica) nei pazienti eterosessuali dichiarati!

Il pregiudizio sulla normalità è tanto pervicace quanto automatico. D'altronde, J. Lacan ha scritto: “Lasciare l'Altro al suo modo di godimento sarebbe possibile solo a condizione di non voler imporre ad esso il nostro, di non considerarlo un sottosviluppato” (Télévision, 1973).

Non c'è nulla di più facile nel settore del malessere mentale dell'arroccamento nella torre d'avorio dei modelli esplicativi: “Se non capite cosa un altro essere umano sta facendo, diagnosticatelo! Troverete sempre un numero sufficiente di vittime con cui giocare questo gioco” (D. Cooper).

La comunicazione tra paziente omosessuale e “analista” rischia pertanto di correre su binari erotizzati in chiave sadomasochistica, in quanto il primo sperimenta come bisogno la ricerca delle “cause” e può arrivare a domandare “la cura” a chi risponde “con piacere” non aspettando che di veder confermato il diritto/potere di identificare la patologia.

D'altra parte, molti omosessuali manifestano una comprensibile diffidenza verso la psicoterapia e la sua presunta oggettività: “Ma ti rendi conto? Decidono che se preferisci il melone alle prugne bisogna immediatamente costruire un romanzo familiare che spieghi la mostruosità” (D. Fernandez, La stella rosa, 1980).

La psicoanalisi ha sottratto il problema dell'omosessualità alla medicina per rivendicarne la “proprietà” affermandone la natura di disturbo della personalità o il carattere di immaturità. Simone de Beauvoir ha sintetizzato in una frase il più grave demerito della divulgazione analitica: “Il gran torto della psicoanalisi consiste, per conformismo moralizzante, nel considerare l'omosessualità sempre un atteggiamento in autentico”.

Quale terapeuta eterosessuale non cede alla tentazione di interrogativi avvertiti come del tutto leciti o addirittura doverosi?! Di fronte al paziente che si dichiara omosessuale o riferisce di aver avuto rapporti omosessuali, sembra spontaneo e necessario domandarsi non tanto “Perché? Qual è la causa?”, quanto soprattutto “Fino a che punto è vero? Si tratta di esperienze autentiche?!”.

Di converso, ogni fantasia o attività di tipo omosessuale rischia di sollevare sospetti di scabrosità psicologiche profonde, indizio o indice di turbe dello sviluppo pregiudicanti l'accesso alla “maturità”.

I terapeuti eterosessuali paiono disposti a chiudere tutti e due gli occhi e a passar sopra a molte maturazioni approssimative, per non dire presunte, quando valutano i fallimenti sessuali e affettivi dei loro pazienti eterosessuali.

Sanno essere indulgenti nel giudizio sulla pseudo-genitalità del funzionamento nel coito e schiudono le porte dell'Olimpo della Normalità a chiunque aspiri a conquistare la posizione del missionario, cioè purché sia fatta salva la possibilità di fare sesso con l'altro sesso.

Strano slittamento nel pragmatismo per un modello epistemologico che dovrebbe privilegiare la dimensione rappresentativa e simbolica! Ma le contraddizioni non hanno mai spaventato gli esperti della psiche.

Risulta evidente che a psicologi e psichiatri eterosessuali va chiesto anzitutto la disponibilità a interrogarsi sulle modalità di elaborazione del pensiero sull'omosessualità. Occorre sciogliere la riserva con un serio lavoro personale sul piano dell'attitudine e delle categorie di comprensione del reale.

Per poter fornire ai pazienti omosessuali un'empatia profonda, sostanziale e capace di dare sostegno, essi devono arrivare ad “avere cura” della sofferenza umana che attraversa l'omosessualità e prenderne “a cuore” le sorti.

Ciò significa riconoscere l'omosessualità come un vero e proprio patrimonio dell'umanità da salvaguardare e tutelare.

È fondamentale saper postulare con la mente e con il cuore l'esistenza di un'omosessualità sana, almeno in potenza, esattamente nello stesso modo con cui si fa credito all'eterosessualità di una dotazione di salute nonostante l'immensa “miseria nevrotica” (di freudiana memoria) che porta gli eterosessuali ad affollare gli studi medici e psicologici.

Bisogna altresì applicarsi, non solo ideologicamente o a parole, a concepire la “scelta oggettuale” come un obiettivo alla portata di omo e di eterosessuali, non ritenendola quindi una esclusiva dell'eterosessualità, che infatti ne è di frequente priva o carente. Il confronto con l'Alterità segue strade diverse da quelle del dimorfismo sessuale sia fisico che psichico.

L'identità individuale deriva e si alimenta di una successione di inibizioni adeguate. Molte di esse sono frutto del sistema di autoregolazione della psiche, il cui operato mira a consentire al soggetto di tracciare e seguire il percorso che gli è più congeniale nell'ambito di limiti appropriati.
Le inibizioni sono in tal senso al servizio di un “progetto di individuazione” che tende a rendere possibile la migliore realizzazione del potenziale umano di un determinata individuo.

L'omosessualità come patrimonio antropologico si manifesta e ri-vela in forma recessiva negli eterosessuali e in forma dominante negli omosessuali. Gli uni sono portati ad umiliarla coprendola del fango della patologia e dell'innaturalità; gli altri sono indotti a mortificarla riducendola a mero esercizio genitale o confinandola nel recinto del sentimentalismo (la coppia gay idealizzata quale affermazione a due).

In verità, la dinamica omosessuale e il desiderio omosessuale (nelle loro espressioni parziali o globali, nevrotiche o sane, narcisistiche o equilibrate) svolgono la funzione di far vivere una dimensione essenziale della Personalità del Sé. Il loro scopo, dunque, è di essere vissuti, ben al di là della concretizzazione sessuale.

Nell'omosessualità la persona ricerca molto più che la semplice soddisfazione degli "istinti”, qualcosa di più fondamentale del “sesso”: la propria realizzazione. La pratica sessuale e la relazione affettiva di tipo omosessuale individuano e svelano l'attivazione di una problematica significativa sul piano dell'esistenza e della psicologia del profondo.

Analogamente a tutti i gesti e le esperienze umane, tale dinamica possiede uno spessore simbolico che ne è la chiave di lettura e di senso per l'individuo e per la collettività.

Pertanto, gli omosessuali, prima ancora di essere incoraggiati a riconoscere l'altro sesso quale interlocutore, vanno aiutati a nutrire e a dare consistenza alla loro omosessualità: “L'omosessualità non è solo legata a dei contatti fisici o sentimentali, essa informa tutta la struttura dell'esistenza” (J.P.Aron, Il mio aids, 1991).

Gli omosessuali soffrono della mancanza di un'etica che superi l'adeguamento al Principio del Sapere, cioè la cristallizzazione implicita nella domanda: “Chi sono? Qual è il segreto del mio desiderio?”.

Secondo quanto ha insegnato Michel Foucault, l'omosessuale che cerca la Verità su se stesso nell'angusto spazio compreso tra predisposizione innata e condizionamento psicosociale finisce per perdere la bussola dell'autenticità e per adattarsi a restare alla superficie del pregiudizio altrui scambiandolo per propria profondità.
C'è quindi un modo di “voler sapere” e chiedere aiuto o cure che produce soltanto accettazione del volto irrigidito dell'omosessualità storica.

Non si tratta di dire no all'analisi o all'inconscio, bensì di promuovere un lavoro sull'identità che inauguri nuove possibilità esistenziali e relazionali, che trasformino l'omosessualità da tipologia di desiderio a condizione desiderabile.

Il fine della psicoterapia è, nelle parole di J.Lacan, accompagnare il soggetto fino al limite estatico del “tu sei questo ” (eco occidentale dell'orientale “tat twam asi”: questo sei tu), ove si rivela la cifra del suo (nostro) destino mortale. In sostanza, il compito che ci spetta è di dire sì alla nostra totalità psicofisica.

Mattia Morretta (1995)

Testo originale in Rivista di Scienze Sessuologiche, Vol. 8 n.2, maggio-agosto 1995