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Sotto la coltre della malattia
UNA CITTÀ n. 29 / 1994 Gennaio-Febbraio
Intervista a cura di Rosanna Ambrogetti

Come affronta il dolore e la morte il malato di Aids?

Direi che l’aspetto del confronto col dolore e con la morte, con la malattia e con il senso della vita, è inevitabile nella condizione della sieropositività. Da un certo punto di vista è l’estremizzazione o l’enfatizzazione di una condizione esistenziale comune, della condizione di tutti gli uomini, di avere almeno una coscienza minima del fatto di essere vivi e di sapere che esiste la morte come termine, che nella vita ci sono malattie, sofferenze, difficoltà, oltre che piacere, benessere, felicità.

L’Aids è come un’imposizione a non poter fingere, a non poter ignorare che comunque esistono certi interrogativi e problemi da affrontare, in una cultura che tende ad espropriare le persone della capacità di sentire realmente ciò che vivono. Si viene disorientati da tutta una serie di messaggi che pongono la conquista di un certo status nel godimento di cose materiali ed esterne all’individuo, costringendo a dipendere sempre da qualcosa che sta fuori e da qualcuno che darà indicazioni sui percorsi da seguire o gli obiettivi da raggiungere. Per capire cosa vivo devo chiederlo a qualcun’altro, basta osservare la grande psicologizzazione delle difficoltà esistenziali, segno di una perdita della bussola interiore, del disorientamento, dello spostamento dell’identità verso l’esterno e non nella profondità.

La condizione dell’Aids o della sieropositività effettivamente pone al soggetto una serie di domande ineludibili e se si hanno strumenti personali e un ambiente che lo consente si può fare un percorso di estrema crescita. In tale contesto morire diventa “naturale”, ci si può anche preparare alla morte, che invece è l’ultima delle cose che oggi si auspica. Secondo le indagini, i contemporanei desiderano morire all’istante, di una morte improvvisa, non vogliono avere il tempo di prepararsi, al contrario di quel che accadeva una volta. Questo recupero di una possibilità di dare naturalità alla morte è una cosa importantissima.

Un altro aspetto rilevante e specifico è che nell’Aids le relazioni sono “a termine”, cioè la persona sa che instaura dei rapporti che possono finire. In verità, è del tutto normale, il sottofondo comune di tutte le interazioni benché non lo si espliciti: per entrare veramente in relazione con un altro dovrebbe essere implicito che si accetta la perdita dell’altro. Di solito si pensa il contrario, invece qui è enfatizzata la possibilità della perdita dell’altro, oltre che di sé, qualcosa da mettere nel conto.

Come viene vista dalla società questa malattia?

La persona che vive una malattia sufficientemente seria da mettere in discussione l’esistenza, non solo nel senso della morte, ma pure in termini relazionali e di rapporto con se stessi, vive un’esperienza che ritengo vada concepita come un valore, una specie di tesoro, con uno sguardo affatto diverso da quello attuale sulla malattia quale fallimento e colpevolezza. L’idea di medicina preventiva odierna è spaventosa, una forma di ossessione ipocondriaca in una cultura malata di narcisismo e cieco individualismo. Il paziente viene considerato solo come colui che ha bisogno, che perde e si svuota, soprattutto che manca della salute o meglio della sua idealizzazione, perdendo di vista l’identità di persona.

Oggi è normale essere sani, una normalità del tutto astratta e ideale, poiché nessun individuo è sano in assoluto e noi cominciamo a decadere dal momento della nascita. Eppure intorno al nodo salute c’è un’enorme industria del consumo che si appoggia sulla pseudo-diversità contrapposta della malattia. La medicina reagisce con bellicosità quando è a rischio la vita e la sfida viene enfatizzata. I malati di Aids sono visti attraverso due immagini che deviano l’attenzione dalla soggettività: o sono debilitati e hanno bisogni sanitari, oppure sono identificati con coloro che non hanno la casa, sono senza famiglia, per strada o emarginati, quindi hanno bisogni socioeconomici. Ambedue le caratterizzazioni fanno perdere di vista l’identità e ostacolano altre forme di identificazione.

Come si può allora vedere oltre?

Più ci si avvicina al soggetto malato e più si sente con chiarezza un interrogativo sui valori di fondo, sull’essenzialità dell’esistenza, una verità talmente mascherata, confusa, dissimulata, da far pensare che il dolore sia fuori luogo nella vita. Facendosi largo in questa giungla di sovrapposizioni si coglie il progredire della persona, naturalmente su piani assai differenziati, perché il punto di partenza è fondamentale.

La sieropositività e l’Aids sono una specie di pettine, tutti i nodi della personalità vengono tirati, per cui conta la storia precedente, tanti problemi preesistevano e impediscono di confrontarsi con la nuova condizione, di essere pronti a fare quel cammino. Infatti a volte l’aiuto, almeno nel mio caso, consiste nel far sì che l’individuo si metta in condizione di cominciare un percorso sull’aspetto esistenziale. Pertanto molto dipende dallo sguardo di chi si avvicina, perché gli operatori, i tecnici e coloro che intervengono spesso tendono ad offuscare o a mettere lenti oscuranti, ritenendo che il problema siano le necessità materiali e il viaggio esistenziale solo un lusso piuttosto che un elemento superfluo e irrilevante.

È chiaro che un soggetto malato ha bisogno dell’assistenza a domicilio e di terapie, ma anche questo entro certi limiti, perché nell’Aids con la giustificazione dell’inguaribilità si insiste fin troppo sulla cura, con un accanimento inquietante fino all’ultimo giorno, non c’è un momento in cui si accetti di non aver più nulla da fare. No, togli la milza, fai la Tac, il prelievo…

Sono pazienti “ideali” da tale punto di vista, sicché si passa dall’incuria di alcuni reparti a quelli super specialistici all’americana, in cui tra comfort, televisore, camera singola, ogni sintomo è occasione per intervenire, la lombare la biopsia eccetera, sino all’esalazione dell’ultimo respiro.
E la persona cosa può fare? Il suo destino è confiscato, si è veramente piccoli e in balia di un mondo devastante, per cui occorre esser forti e coraggiosi, oppure supportati.

Quando si dice che molti malati “fuggono” dal trattamento bisognerebbe rendersi conto della difficoltà di trovare un equilibrio. Ci sono tanti proprietari dell’Aids, prima non lo voleva nessuno, adesso lo vogliono tutti e i padroni devono dire la loro ritagliando un pezzetto per i loro interessi. Il soggetto è esautorato ed espropriato, così si sentono i malati parlare di cose che non hanno nulla a che fare con quel che sanno e sperimentano, quel che sarebbe importante far conoscere e che gli altri potrebbero stare ad ascoltare con gli occhi aperti.

Se la malattia e la persona malata vengono concepite come ricche di valore, con un tesoro sotto la coltre di perdite, privazioni, patologie organiche, necessità sociali e angosce psichiche, un tesoro in senso esistenziale ed umano, allora anche il rapporto cambia. Non è ricco soltanto chi si avvicina e dà al povero malato, è possibile pure l’inverso, con uno scambio sul piano dell’umanità. Non è un caso che ci sia l’esigenza ben incarnata dai cristiani di essere presenti laddove ci sono il povero e il debole, poiché là si vede l’uomo e andando a portare aiuto in realtà si trova e riceve umanizzazione.

Ma cosa ha reso così specifica questa condizione?

L’Aids sembra essere la condensazione di una serie di problemi dei decenni scorsi, connotati dall’esplosione tecnologica e dalle conquiste farmacologiche. Alcune esperienze fisiche di dolore sino a qualche tempo fa erano normali, non avevamo antidoti, oggi la sofferenza, il dispiacere, il confronto con l’idea di malattia, invalidità e morte non fanno più parte della vita, quasi fossero stati inseriti a forza e quindi debbano essere eliminati. Come se nessuno avesse mai avuto una persona malata in casa, un vecchio, un morto; come se il dolore fosse qualcosa di sconosciuto nella quotidianità.

Se è vero che la morte viene asportata ed esportata, disumanizzata in quanto non pertinente all’uomo, una realtà da combattere e non da comprendere, poiché non la si può cancellare del tutto la si deposita da qualche parte. E dove? Nei quartieri poveri, nelle minoranze, nel terzo mondo, altrove purché non sia dove vive l’uomo medio occidentale. Si è compiuta tale operazione di spostamento all’esterno, esilio ed esportazione dell’esperienza di mortalità, che l’Aids ha riportato all’interno dell’Occidente, addirittura dentro l’intimità, perché la morte di Aids si scambia, si dà e si riceve attraverso comportamenti intimi, la contagiosità è legata alla sfera sessuale.

Nel recente passato si è fatto della sessualità uno strumento contro depressione, ansia, autorità, per l’affermazione individuale, estremizzando i suoi lati piacevoli, di gioco e godimento, di liberazione dalle catene di una presunta repressione brutale da parte del controllo sociale. Si è imposto un modello in base al quale tutto ci si aspetta tranne che dal sesso vengano il dispiacere, la malattia e la morte. Negli ultimi 40 anni è come se l’uomo avesse perso il contatto con le generazioni precedenti e con la storia, quasi non vi fosse continuità. Sino a circa il 1940 non esisteva una differenza tanto grande nel modo con cui gli individui pensavano a se stessi, alla vita e ai valori fondamentali, poi si è aperto un abisso. Si ha l’impressione di vivere in una specie di isola rispetto al resto delle epoche trascorse.

Noi spezziamo il legame con la cultura passata, con la biologia, con la condizione umana, e ci proiettiamo in un futuro per lo più astratto o idealizzato. Oggi in apparenza in Occidente non c’è guerra nello scenario esterno, ma a ben guardare è dentro, dando occasione di soddisfare pulsioni aggressive e distruttive. Si è detto che abbiamo superato il problema della sopravvivenza perché l’ambiente è soggiogato, anzi vinto e distrutto; tuttavia, l’auto-sopravvivenza si focalizza nel rapporto tra uomini.
Sicché l’ambiente siamo noi reciprocamente, è l’uomo rispetto all’altro uomo, lì si collocano la maggioranza dei conflitti che riguardano l’esistenza e lì si insinua la possibilità di scaricare aggressività, dalle difficoltà di intimità alla sfiducia, fino alla morte.

In effetti c’è un enfasi sul rapporto interpersonale, sulla coppia, sulla socializzazione, c’è la prescrizione di uno stile di realizzazione, e l’Aids pare sottolineare proprio che l’ambiente sono gli altri, è da loro che viene la minaccia alla nostra sopravvivenza. Una contraddizione assurda e intollerabile perché la sessualità è intesa come fonte principale di piacere nella vita. Si è creduto che il sesso potesse essere liberato da qualunque forma di censura, che potesse giovarsi di una libertà totale di espressione, invece è fonte di rischio e pericolo, per cui occorre responsabilizzarsi, introdurre dei limiti, ridurre l’aspettativa di gratificazione, adattarsi ad una certa quota di dolore.

Questi alcuni dei motivi che hanno generato il fenomeno Aids in senso antropologico, mentre noi vediamo soltanto il gruppo di sieropositivi che fa pressione per avere farmaci, l’Hiv positivo come consumatore di sanità che ha diritto a stare al tavolo con i suoi medici. Questa è una maniera di ingabbiare l’esperienza della persona riducendola a fungere da paziente, che in quanto tale si può ammettere faccia parte di una commissione. Tutto il resto non interessa e non è vendibile.

Avendo una formazione cattolica ho avuto la fortuna di pensare che la vita sia una valle di lacrime, non nel senso di una concezione punitiva e improntata al martirio o al castigo. La grande tradizione cattolica si interessa all’essere umano e ha fissato i nostri punti fermi per identificare l’umanità in Occidente.
Pur non essendo credente, questo per me ha molta importanza, come nel racconto di Fred Uhlman Un’anima non vile , nel quale si afferma: “bisogna vivere come se Dio esistesse”. Quindi come se l’amicizia, l’onestà, la moralità, avessero un senso e fossero un valore effettivo, benché non necessariamente un fondamento oggettivo.

Freud diceva che gli uomini pensano alla felicità soltanto come presenza di intense sensazioni di piacere, mentre tutte le antiche scuole di saggezza miravano soprattutto a far sì che il dispiacere e il dolore fossero ridotti alla quota inevitabile. La sofferenza ci viene dal corpo che deperisce e ci fa morire, dal mondo che ci minaccia con la lotta per la sopravvivenza, dal rapporto con gli altri esseri umani. Già riuscire a ridurre il dolore che è connaturato all’esistenza e saperlo sopportare agisce come fonte di felicità.
Un discorso che attualmente non passa, anzi viene reputato reazionario, quasi con una connotazione politica, come se si volesse costringere gli individui a vivere al di sotto delle loro possibilità, delle aspettative ed aspirazioni moderne.

La nostra società va verso l’aumento vertiginoso dell’aspettativa di piacere, al punto da renderla immensa, impossibile da contenere e da saziare, mentre al contempo si vorrebbe eliminare totalmente il dolore. L’estremizzazione delle due pretese crea una situazione impossibile da vivere in piena coscienza, un vortice in cui si perdono i punti di riferimento. Su che cosa possiamo fondare l’esistenza, visto che vogliamo identificarsi solo col godimento a tutti i costi, affermarci e realizzarci e allo stesso tempo disconoscere il dolore?

Nella mia esperienza personale con i gruppi di auto-aiuto la strada intrapresa non è quella di pensare alla soluzione, bensì di sperimentare la convivenza con la sofferenza. Se io sono malato e soffro, la sofferenza sono io, non è qualcosa di estraneo a me, altrimenti non c’è scampo. Per questo bisogna scegliere di essere nella sofferenza, cioè io sono nella sofferenza e non ho la sofferenza, quasi fosse un parassita.
Anche se è estremamente difficile, un processo di crescita faticoso e complicato, si può provare una sofferenza che dà anche della gioia e in certi momenti della felicità.

Se si ascoltano dichiarazioni di soggetti che da tempo convivono con l’Aids, si coglie questo aspetto del piacere di essere se stessi interiormente, perché non c’è differenza o alterità, c’è un’adesione totale, sono io e non la malattia, sono una persona che è ed esiste attraverso e con la sua malattia, non potrei esserne fuori.
Di fronte a persone malate si ha una sensazione di grande sacralità perché hanno compreso verità che non si possono neppure dire, di cui solo una piccola parte può essere comunicata.

In questa strada da percorrere come agiscono i gruppi di auto-aiuto?

I gruppi sono una specie di rito primitivo, da soli è tutto più difficile, mentre insieme ad altri diviene realizzabile. Sono stato il promotore in Italia dei primi gruppi di auto-aiuto pur non essendo sieropositivo, non ho mai inteso l’auto-aiuto come autosufficienza, anzi, è proprio un equivoco finire per dire “fate da soli per conto vostro”. Penso sia importante lo scambio con chi non è sieropositivo, per un gioco di polarità in cui chi è “malato” o potenzialmente malato accetta la condizione e le parti sane di sé, e chi è “sano” per l’Hiv e idealmente sano accetta di esserci in quanto soggetto avvantaggiato in quel frangente e in quel contesto, riconoscendo però la propria parte di malattia come possibilità e necessità della sua esistenza.

Ciò dà integrità all’uno e all’altro, aumenta la complessità ma pure le conquiste possibili. Condividendo l’esperienza, trovando un linguaggio anche iconografico, riti sociali di lutto, dalle coperte alle fiaccole, si cerca di creare una piccola comunità che affronta collegialmente un problema che da soli è impossibile fronteggiare.
Fuori non si possono condividere i temi della sofferenza e della morte come costitutivi, non c’è o spazio, perché vengono fatti sparire con un gioco di prestigio nonostante siano realtà ubiquitarie.

Pensi che passaggi televisivi siano una cosa positiva?

Sono molto critico al riguardo, perché la questione è la vivibilità e non la visibilità. Essere socialmente visibili è importante, ma non nella versione spettacolare perché la società dell’immagine ricicla di continuo ogni vicenda umana e la snatura, la svuota e la trasforma in prodotto di consumo. Viene sfruttata la spettacolarizzazione per dare l’illusione di aver capito e aver fatto la propria parte, magari provando compassione.

Ho fatto e faccio quello che posso per restare fuori dal circuito mediatico, rifiutando l’accesso alla TV perché tutto è fatto passare attraverso le forche caudine dell’immagine nella quale racchiudere tutti i contenuti. Tutto viene reso superficiale, ci sono immagini che costringono a fermarsi alla superficie e quindi al godimento o alla fruibilità immediata, un processo chimico di catalizzazione di reazioni brevissime, dopo le quali l’individuo si ritrova inalterato, come se non fosse successo niente, non essendoci stimolo a riflettere ed approfondire.

Si tratta di un contesto massacrante, chi accetta e non si presenta come caso pietoso, risultando doppiamente vittima, bensì come interlocutore con facoltà di parola, paga poi duramente perché la macchina dei mezzi di comunicazione di massa è spaventosamente violenta. Si paga perché l’immagine genera un personaggio che risucchia la persona, la depaupera e la forza ad essere esclusivamente il personaggio. Abbiamo sempre accettato a condizione che venisse garantita la possibilità di parlare della condizione esistenziale e non di farmaci o assistenza, facendo circolare un discorso sulla convivenza con la malattia e la diversità, rifuggendo tanto dall’immagine pietistica quanto da quella disinvolta, poiché l’Aids è una tragedia.

In genere la televisione preferisce il dramma perché la tragedia riguarda tutti ed è costitutiva dell’umanità. A livello di massa la comunicazione viaggia su altri binari rispetto alla vita e non è possibile fare cultura esistenziale. Occorre, invece, rimboccarsi le maniche in tutti rapporti personali per fare cultura sulla sofferenza, la malattia e la morte. Le persone vanno raggiunte mediante esperienze di solidarietà a macchia d’olio, attraverso una vera e propria politica interpersonale.
Per esempio, nella quotidianità, in casa, con gli amici, si può parlare di tali temi senza aspettare l’Aids. Comunque sia, ognuno, se valuta la propria esistenza, sa cos'è il dolore e in questo senso riscopre la sua umanità e la concede anche agli altri, non ha bisogno di fare degli altri dei fantocci o delle vittime sacrificali.

Mattia Morretta