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Paura di vivere o di morire?
Hiv, irrealtà e prevenzione

«Ti sbagli, mio caro, se credi che un uomo, per poco che valga, debba tener conto del rischio di vivere o di morire, invece di osservare, ogni volta che agisce, questo solo: se le sue azioni siano giuste o sbagliate, se siano degne di un uomo perbene o di un malvagio»
(Platone, Apologia di Socrate, XVI)

Riparlare di Aids, ancora?! A che scopo, quando tutti o quasi hanno staccato la spina del pensiero e il discorso è ridotto al minimo storico e lessicale, ora che almeno non si fa più finta di volerne discutere seriamente? Per gli organi di stampa è una manfrina da ripetere nella giornata mondiale una volta all'anno, che in effetti basta e avanza visto il livello delle riflessioni. L'argomento ha fatto il suo tempo, le sue vittime, i suoi scoop, l'oscuro effetto del contagio non tira più come prodotto da che la morte (in apparenza) non abita più qui.

Le commissioni ministeriali si rinnovano nella tradizione della rappresentanza politica delle categorie coinvolte (dire “interessate” renderebbe meglio l'idea della posta in gioco); del resto i politici e i leader sociali hanno recitato la loro parte ieri, anzi ne hanno fatto un copione di poche battute, facili da imparare, sempre le stesse, quindi per i vecchi e nuovi “protagonisti” limitarsi a muovere le labbra è più che sufficiente.

Tema da ultima spiaggia delle conversazioni tra estranei, avendo perduto da almeno un decennio quel fascino ambiguo di questione di moda, minestra riscaldata e indigeribile persino nei Convegni dedicati (alla patologia e ai suoi signori), cosa resta da dirne, se non un necrologio frettoloso e distratto?!

E chi si sintonizzerebbe sul canale, se non i suoi patetici fans del versante nevrotico e psicotico, quei soggetti fobico-ossessivi, ipocondriaci, borderline o perennemente sull'orlo di crisi di nervi alla disperata ricerca della causa maligna totipotente?

Gli altri ascoltano o pronunciano le frasi di circostanza trattenendo a stento sbadigli di noia, tra chi non ne può più delle solite lagne e tiritere (il preservativo e la solidarietà), chi fa mostra di apprezzare le campagne informative rivolte a minorati irrecuperabili, chi fa orecchio da mercante alle quattro nozioni ribadite dai volontari delle linee telefoniche, chi ha riposto il fiocchetto rosso sgualcito e sbiadito da un pezzo (per fortuna, dato che in Italia è nato per esigenze di spettacolo e sul palcoscenico di un noto talk show).

E così, l'Aids è da anni un buco nero nel quale scompaiono buon senso, intelligenza, lucidità, onestà anzitutto intellettuale, e dal quale occorre stare alla larga se si tiene alla salute mentale.

Proviamo allora con l'ipnosi e diamo il comando di catapultarsi sul presente a tutti coloro che hanno il complesso dell'Aids e agiscono in base ad automatismi inconsci. Poche speranze di successo, ma tanto vale rischiare.

Ricapitoliamo due o tre concetti:

• L'Aids, verosimilmente, non esisteva fino agli anni Cinquanta ed è qui per restare (in forma endemica, al pari di altri morbi): appare degno di nota che si tratti del risultato di un incastro di mutazioni biologiche e di mutamenti sociali, senza escludere l'ipotesi suggestiva di una resa dei conti a distanza di decenni (punizione umana, non divina).

Rammento che il poemetto in latino di Girolamo Fracastoro del 1530 “Syphilis sive de morbo gallico”, dal cui protagonista (il pastore Syphilus) è derivata la designazione della più classica delle malattie veneree (detta anche “il male dei cent'occhi”), era dedicato al cardinale Pietro Bembo che ne attribuiva l'origine al dilagare di prostituzione e sodomia. I conti dell'antropologia tornano.

Chi ricorda la sigla “GRID” (Gay Related Immune Deficiency)? E che è stato un medico omosessuale a proporre l'acronimo “AIDS” (Bruce Voeller, deceduto nel 1994)? C'era una volta il retrovirus LAV/HTLV III, “scoperto” in doppio tra Francia e USA nel 1983, dal test originario disponibile dal 1984 si è passati a quelli di enne generazione, l'amplificazione genica e il kit salivare fai da te, la profilassi post-esposizione.

Il bombardamento con il famigerato AZT è stato soppiantato dal tiro al bersaglio più soft dei cocktail farmacologici, il pugno in faccia del sarcoma di Kaposi è finito nel dimenticatoio a vantaggio di linfomi, neuropatie e squilibri metabolici di vario genere, il malato da proteggere dal cannibalismo mediatico e tribale è diventato l'ombra e il secondino di se stesso, la sieropositività uno status da non rivelare non per evitare reazioni di rigetto bensì per negare l'evidenza, quindi per poter fare come se non esistesse. O tempora! O mores! Esclamerebbe Cicerone.

• L'epidemia di Hiv è di fatto, per stessa ammissione dell'OMS, nei paesi industrializzati concentrata, poiché non coinvolge la maggioranza. Al disinteresse generale dei più per le sorti dei malcapitati o dei membri di gruppi esposti fa da contraltare un flusso silenzioso e costante di utenza nei circuiti (pubblici e privati) per il test Hiv, di cui non vi è traccia nei bollettini ufficiali né rilevamento statistico.

• In compenso, la minaccia dell'Hiv è senza dubbio fantasmatica, uno spettro agente sul piano individuale dopo aver agito su quello collettivo (effetto dilazionato della “peste del Duemila”): un fenomeno saturo di contenuti conflittuali per la psiche umana sedimentato nell'atmosfera sociale e nell'inconscio collettivo, ricollegandosi al materiale preesistente e attualizzando incubi ancestrali.

E davvero l'idea prevalente dell'Aids è da considerare una peste dell'intelletto e un fattore di inquinamento ambientale, cartina di tornasole della disgregazione delle impalcature razionali e critiche in atto nella società di massa, perché nelle epoche di decadenza il caos e l'oscurità “primordiali” erodono il sottile strato superficiale di ordine e luce della fragile civiltà.

Su alcune fasce di popolazione, specie giovanile, esso esercita tuttora una fascinazione singolare (misto di attrazione e spavento), scatenando l'immaginazione come poche altre patologie o catastrofi contemporanee.

Un dato, poco noto e che smaschera il presunto bisogno di informazione: nell'équipe del Telefono Aids dell'Istituto Superiore di Sanità vi sono molti psicologi, specialmente per reggere all'urto della drammatizzazione narcisistica e psicopatologica, alimentata da divulgazioni incontrollate di “dettagli” pseudo-sanitari tramite i siti web.

L'Aids rimane inquietante in quanto “inguaribile” e “prevenibile”, ponendo l'accento sulla responsabilità individuale in un'epoca che ne pretende l'abolizione dall'esistenza umana; molti, comunque, lo giudicano “incurabile” e non vogliono cogliere la distinzione, tenendosi aggrappati allo spaventapasseri preferito.

La sua potenza evocativa discende da un eccesso simbolico (sesso, morte, sangue, malattia, diversità), che i più subiscono in concreto scherzando pericolosamente con l'astrazione e l'aldilà.

Malattie prosaiche e mondane

A cosa si pensa nominando l'Aids? Nel contempo a Sharon Stone (sostituta della vegliarda ex bambina prodigio Liz Tailor) che bandisce un'asta benefica per ricconi e alle prostitute senza profilattico col marchio di fabbrica dell'Hiv in Kenya, al volitivo showman Freddie Mercury (più che al preistorico “velato” Rock Hudson) e ai derelitti bambini dell'Africa sub-Sahariana.

Col sottofondo della canzone dei Down Low giustappunto chiamata “HIV”, cito qui in disordine qualche vittima “eccellente” del bel mondo omosessuale: Nureyev, Haring, Koltès e Copi (arte/teatro), Moschino e Furstemberg (moda), Guibert e Chatwin (letteratura), Foucault, Aron e Boswell (cultura), Jarman (cinema), Tondelli, Forti, Bellezza (scrittori).

Nota a margine. Mi pare significativo che un po' in tutta Europa sia cambiata la musica del “garantismo” nei confronti degli Hiv positivi: su 45 paesi europei, in almeno 36 la trasmissione del virus costituisce un reato (in 16 paesi anche l'esposizione al rischio).

Austria, Svizzera e Svezia hanno il più alto numero di condanne, ed è la Norvegia ad aver inaugurato nel 1998 le incriminazioni. Tredici Stati (tra cui Russia, Ucraina, Polonia, Danimarca) hanno leggi che criminalizzano specificamente la trasmissione dell'Hiv “per imprudenza” (agire in modo avventato, sconsiderato, irresponsabile). Russia a parte, non son nazioni abituate a violare i diritti civili.

Ragionando soltanto in un'ottica culturale, va riconosciuto che, a fronte di un numero spropositato di documenti e testimonianze (saggi, racconti, pièce teatrali, film), non c'è nulla di paragonabile con la qualità della produzione artistica associata all'altra grande malattia epocale, la tubercolosi dell'Ottocento e del Novecento.

Tra TBC e letteratura, in particolare, c'è stato un vero e proprio circolo virtuoso, avendo l'esperienza della patologia fornito spunto o fatto da quinta a decine di testi memorabili: da La signora delle camelie di Alexandre Dumas figlio a La montagna incantata di Thomas Mann, fino a Diceria dell'untore di Gesualdo Bufalino.

Per non sbagliare e per mettere il dito nella piaga, trascrivo qui un brano tratto dal romanzo di Umberto Saba Ernesto (scritto nel 1953, durante il ricovero in una clinica romana, e pubblicato postumo nel 1975), il cui protagonista è un giovanetto di 16 anni alle prese con l'iniziazione (omo)sessuale nella Trieste del 1898:

«C’erano certo le malattie (anche di quelle i suoi compagni gli avevano parlato: uno di questi si faceva bello di averne già contratta una); ma Ernesto non temeva, in quel momento almeno, le malattie; in nessun caso quelle che si possono prendere dalle donne. Se mai, c'era stato un periodo in cui si era fissato di essere destinato a morire tisico, prima dei vent'anni: questa era stata per lui la conseguenza di una “campagna” che facevano allora i giornali contro “il male che non perdona”, spaventando i lettori, specialmente giovani, e suggerendo precauzioni e rimedi a cui solo i ricchi potevano, nella società del tempo, ricorrere. Tutti gli altri dovevano crepare. La fissazione durò due o tre mesi, poi Ernesto non ci pensò più…».
C'è da aggiungere qualcosa?

E che dire dell'Olimpo degli dei luetici? Sotto l'egida de La reazione di Wassermann (1914) di Boris Pasternàk e limitandomi agli ultimi due secoli, elenco: Baudelaire (clamorosa la sua crisi di afasia e paralisi mentre si trovava nella Chiesa di Saint Loup a Namour, il 15 marzo del 1866, a 45 anni), Ludwig II di Baviera (la diagnosi è del dottor Biermann su materiale autoptico a 100 anni dalla morte), Nietzsche (proverbiale la sua sfuriata in piazza a Torino per l'esplosione della sifilide terziaria, seguita da ricovero in una clinica di malattie mentali a Basilea e poi nel manicomio di Lipsia); Rimbaud, Wilde, Schumann; l'imperatrice Sissi e Francesco Giuseppe consorte; la baronessa trapiantata nella sua Africa Karen (Dinesen) Blixen.

Quanto alla gonorrea, meritano una menzione speciale Lord Byron (che nel taccuino annotava il primo episodio non a pagamento mentre si trovava a Venezia), Vittorio Alfieri (amorevolmente curato dal servitore-ombra), e sul gradino più alto Lev Tolstoj (nelle pagine iniziali del diario, a 19 anni, ha registrato la blenorragia).

Certo ne è passata di acqua sotto i ponti da quando Casanova nelle sue Memorie riportava l'usanza di far la prova del limone spremuto in vagina per accertarsi del male. Fa impressione venire a sapere che negli anni Venti in Italia esisteva una “Lega Italiana contro il pericolo venereo” collegata a pubblicazioni di carattere scientifico assai interessanti (oltre alla “Rassegna di studi sessuali e di eugenica”, la singolare “Biblioteca dei curiosi”).

Allargando l'orizzonte temporale dell'analisi o semplicemente lettura di questi come di altri fenomeni, ci si rende conto infatti che raccontare la storia comporta un lavoro di ricostruzione e connessione, il tentativo (o la tentazione) di rintracciare un senso riconoscendo errori e cecità, mettere ordine per dare significato a vicende privare e pubbliche, vite e morti alla deriva nel tempo.

E viene spontaneo chiedersi: descriviamo processi lineari o abbiamo a che fare con la circolarità? Si procede dritto o si chiude un cerchio, passando lungo una circonferenza i cui punti nodali sono presenti sin dal principio e ritornano in ciascuna era e generazione?!

Il treno dell'Aids fermo su un binario morto

Nell'Aids nostrano tutto è preso alla lettera, non ci sono simboli e quindi non c'è cultura, perché ogni elemento è visto nella sua specificità senza correlazione col resto (la parte al posto di tutto e non per il tutto). Il primo imperativo e passo, perciò, per demistificare e demitizzare l'Aids è quello di cambiare linguaggio (vale pure per tante altre ovvietà postmoderne: se pensiamo che eroina deriva da “eroe”).

Dovremmo alfine prendere coscienza di essere un Paese senza autonomia verbale, avendo rinunciato da subito a chiamarlo “Sida” (diversamente dai cugini di Francia e Spagna), e di poter fare tuttalpiù re-informazione, dato che non scriviamo su un foglio bianco, anzi, non c'è un centimetro di spazio per comunicazioni attuali e non compromesse dai trascorsi di clamorosità e impostura.

A titolo di cattivo esempio, scelgo lo sceneggiato a puntate “Un posto al sole” di RAI 3, che si onora di alcune riprese in un falso centro sociale di zona sulle cui pareti continua a spiccare il numero verde Aids con le cifre 167 nel disinteresse di pubblico e autori!!

Viceversa gli “esperti” sono perennemente a caccia delle novità per non sembrare arretrati (e per fare salottino con i colleghi che “non se ne occupano”), poiché l'Aids resta catalogata quale “epidemia emergente”. I dettagli freschi si accatastano su quelli avariati, e non c'è chi miri ad una visione e una prospettiva d'insieme.

La diagnosi di Hiv permane nell'immaginario una sentenza di morte e di condanna alla emarginazione: eppure, non si tratta né di un'urgenza né di una emergenza sanitaria (quando l'aspettativa di vita è definita in 20/30 anni, è logico associare la mortalità a quella ipoteca sulla salute?). Il clima “drammatico” è quindi espressione di irrimediabile superficialità. Inoltre, è possibile oramai ragionare solo di Hiv e non di conseguenze dell'esercizio del sesso? (Ok, per l'Hiv c'è il bollino rosso sangue!)

Ascoltando gli oracoli degli addetti si ha l'impressione che i lavori siano appena iniziati e in corso, mentre intanto tutto è cambiato! La deformazione mentale ha impedito di inserire le lesbiche nelle statistiche ufficiali dei casi di Aids, portato a produrre neologismi appositi per i comportamenti omosessuali (Men who have sex with men: perché non c'è il corrispettivo “etero”, cioè maschi che fanno sesso con femmine? Capisco: troppo crudo e realistico!).

Si è imposto l'uso di termini inservibili quali counsel(l)ing, consentito progetti ridicoli esonerati da verifiche di efficacia. Larry Kramer, fondatore di Act Up New York ha avuto l'ardire di confessare che le ONG non servono a salvare vite, se mai a morire meglio.

In particolare si sono avvalorati riguardo agli omosessuali una serie di pregiudizi a rovescio: dare per scontato che sappiano tutto sull'Aids, che siano/debbano esser sudditi dell'impero dei sensi, che non possano/debbano aver paura del sesso (altrimenti come fanno ad essere “gay”?).

Del resto, va bene a tutti che gli omosessuali se la sbrighino tra di loro nei duelli con la pistola sessuale dotata di silenziatore politico. Siamo al punto che qualcuno nell'ambiente gay parla di “quelli ancora senza virus”, perché è solo questione di attendere il proprio turno per i sopravvissuti alla ecatombe.

Con tanti specialisti dell'Aids a disposizione siamo dunque peggio che al punto di partenza, perché se una volta si poteva citare la massima di T.W. Adorno “Parlarne sempre, non pensarci mai>", adesso è d'obbligo il silenzio. La divulgazione di massa è arenata e l'approccio mirato non può salpare perché non si sa che cosa dire, avendo esaurito gli scambi di figurine delle brochure e degli slogan, e non avendo mai tentato di far leva sull'Aids per promuovere la consapevolezza della e nella sessualità.

La de-responsabilizzazione abituale nei territori assegnati all'Aids è finanche imbarazzante: i professionisti dell'informazione possono fare con disinvoltura gli “opinionisti” in tema di contagiosità e gli utenti possono fare quello che vogliono dei test e dei servizi.

Aggiungiamo la schiera dei donatori di sangue mendaci, mistificatori, promiscui, accolti con i guanti di velluto se sfrontati nel dichiararsi “normali”. Stupisce che i CDC in USA siano giunti a proporre il test obbligatorio e di routine a chiunque acceda a strutture sanitarie?

Vengono azzerati due decenni di propagandato counseling e di malinteso garantismo (finalmente) perché la strategia fin qui usata non è servita: a furia di preoccuparsi dei traumi psicologici della diagnosi di sieropositività (peraltro ridotti col passare degli anni ad un bonsai narcisistico per colpa di medici e pazienti), si sono favorite la rimozione e la fuga, al punto che in troppi evitano di sottoporsi volontariamente al test, in molti (specie coloro che sono più mescolati e nascosti nelle pieghe della regolarità matrimoniale) arrivano alle cure in fase avanzata e dopo aver moltiplicato e distribuito pani e pesci contaminati a destra e a manca.

Quanto all'ambito medico, si danno i numeri degli esami e dei trattamenti, ma non c'è conoscenza dei pazienti/utenti, specialmente degli omosessuali. Verrebbe da considerare che a fregarsene di più siano proprio quelli che su di essi fanno carriera.

Tornando con la memoria ai primi anni Ottanta, ricordo che nei Centri venerei si eseguivano soltanto “controlli” e visite, non veniva fornita nessuna indicazione di comportamento per evitare malattie che si ritenevano connaturate all'omosessualità e addirittura fattore di identificazione sociale, la sorveglianza era passiva in senso stretto perché ci si limitava a registrare i fatti. Oggi si guarda col binocolo brevettato, si compilano (male) schede statistiche, si fanno esortazioni retoriche in cui non si crede.

Lotta all'ultima esangue ideologia

Sullo sfondo di una società distratta per principio, a pretendere di “lottare contro l'Aids” son le solite due fazioni: una vuole vanificare l'estremo ostacolo alla “libertà sessuale”, l'altra cerca di sfruttare la minaccia per colpevolizzare la “licenza”. Uno scontro ideologico, per altro con minimo impegno intellettivo, viene spacciato per dibattito sulla “corretta informazione”.

A livello individuale avviene lo stesso: gli uni nominano il profilattico per sgomberare il campo da ogni riflessione e contrattempo, gli altri si aggrappano all'idea di pericolo per contenersi o non lasciarsi travolgere dalla corrente (si spaventano da sé sentendosi circondati da libertini temerari).

Riguardo agli Hiv positivi si è persuasi che le problematiche siano quelle di due decenni fa, cioè la cura e l'esclusione sociale. Avendo fatto della sieropositività un problema degli altri (discriminazione versus solidarietà), si è privato il sieropositivo di un punto di vista esistenziale e autonomo; per di più, identificandolo quale vittima si è dato alimento alla colpa inconscia e sbriciolato la motivazione che si associa alla responsabilizzazione.

Medici e volontari hanno fatto e fanno raccomandazioni sommarie sul preservativo guardandosi bene dal far pressioni (vile, tu uccidi un uomo morto!). Eppure, ogni caso di infezione implica che qualcuno abbia trasmesso il virus. Ulteriore indicatore è quello delle gravidanze in costante aumento nelle donne sieropositive.

C'è chi si spinge a dichiarare che “le terapie hanno reso persone i pazienti”, trascurando completamente i risvolti sessuali dell'egocentrismo dei non imputabili. D'altronde, che vuoi che importi agli infettivologi della condotta “privata” dei loro pazienti!

La responsabilità nella trasmissione del virus è rubricata nell'area riservata o affidata alla “coscienza”! Si è mai udito un appello a non diffondere il contagio da parte di un luminare o di un attivista?! A chi interessa il fatto che sottoporre il comportamento sessuale a controllo sia un'impresa superiore in genere alle forze dei singoli?! E che servirebbero supporti di gruppo o comunitari?

Per gli infetti e gli affetti da Hiv il bisogno oggettivo di aiuto è molto elevato, ma è percepito soggettivamente come scarso o nullo, perché la medicalizzazione svuota la condizione, la riduce all'osso delle complicanze estetiche e della carica virale, per cui quel che conta è sapere cosa può fare la medicina per curare all'infinito una malattia drogata.

La disattenzione impedisce anche di registrate le patologie iatrogene della imperante dis-informazione che fa dell'Hiv un pirata all'arrembaggio di qualsiasi barchetta corporea, un nemico appostato dietro l'angolo di casa, insinuato nelle microlesioni, nei contatti sangue/sangue e via enfatizzando.

Sul concetto di “rischio” siamo di fronte ad affermazioni in totale libertà (dalla teoria che nega l'esistenza del virus alla letalità del bacio profondo), sul cosiddetto “periodo finestra” inutile soffermarsi (per la "certezza assoluta" si va dai sei mesi a oltre un anno di attesa), sulla “profilassi post-esposizione” si naviga a vista (assecondando i più fobici che la chiederebbero per nulla e non proponendola ai partner di sieropositivi).

La prevenzione dell'Aids è stata ed è terra di conquista degli “informatori sociali”, la cui superficialità è tollerata per indifferenza in quanto destinata a coloro che non sono direttamente e fatalmente coinvolti. Così, si discute allo sfinimento del mostro Hiv con chi pretende di esserne potenziale vittima e non si allerta chi tutti i giorni rischia di infettarsi.

Le fonti informative sono tutte equiparate (Ministero, ONG, siti internet pari sono), il “rischio teorico” è un dessert graditissimo per attardarsi alla tavola della pseudo-medicina, girovagare senza meta sul piano dell'astrazione infettivologica è il passatempo preferito di centralinisti e utenti, per i quali la scienza deve fungere da mamma buona e dare “la sicurezza al 100%”.

Non c'è chi rilevi come il gran parlare a vuoto con i tanti “terrorizzati” dall'Aids nel chiuso degli ambulatori Hiv, nelle cornette delle linee Aids o nei laboratori privati, è reso possibile dalla bassa probabilità di contrarre l'Hiv, che apre una spazio sconfinato di ipotesi fantasiose e dibattiti interminabili, la cui apoteosi è nei forum della rete web cui partecipano i più ossessionati e specializzati loro malgrado, ricevendo il plauso di docenti virtuali che li promuovono perché “aggiornati” (alcuni di questi sfidano davvero l'Aids per padroneggiare il terrore interiore e si prendono la rivincita col “controllo” a posteriori sulla fonte d'angoscia).

La molteplicità e la spregiudicatezza delle lingue (uno dei top è quello della “plausibilità biologica” del contagio nella fellatio ricevuta!) confondono soprattutto quanti sono dis-orientati per fragilità costituzionale e congiunturale, e non hanno utilità alcuna per coloro che dovrebbero usufruire di vero aiuto per imparare a proteggersi.

Quanto l'apriori sia determinante lo si vede bene nei casi di disturbi somatoformi o di somatizzazione con fobia per l'Hiv e/o per il test, i quali fanno venire in mente il giudizio del severo padre de Il piccolo scrivano fiorentino di De Amicis (Cuore): “È la cattiva coscienza che fa la cattiva salute”.

I medici si trovano alle prese con la duplice complicazione dell'alone magico della sigla Aids (“non ne so abbastanza, non si sa mai”) e della variabile dipendente del comportamento sessuale (“il paziente potrebbe aver fatto qualcosa che ha procurato il contagio”). D'altronde, l'Hiv non capita alla stregua di una comune infermità o di un tumore, si verifica in seguito ad atti compiuti dall'uomo, “si va a cercare”, lo pensano quasi tutti, a cominciare dai “pentiti” del sesso.

Da qui gli innumerevoli test inutili, dannosi, sostitutivi di esorcismi e di farmaci tranquillanti, a spese della collettività, perché quasi nessuno vuole assumersi la responsabilità di fare valutazioni realistiche e ragionevoli nella giungla dei mass media e dell'irrazionalità.

Le facilitazioni dei centri sanitari per far avvicinare al test e alla “diagnosi precoce” si tramutano sovente in incentivi a restare immobili, qualunque sia l'esito e che vi sia esposizione o fissazione, o tutte e due insieme. Il tanto sbandierato anonimato (vocabolo di cui conosco un'unica accezione positiva, cioè quella della mortificazione dell'Io) è in realtà assenza di una soggettività con la quale interagire (un soggetto responsabile può agire diversamente e risponde delle sue azioni).

Perché c'è poco da girarci intorno, la prevenzione e l'educazione presuppongo una pressione volontaria e cosciente, con finalità dichiarate, sia dall'esterno che all'interno della persona, e non hanno nulla a che vedere con l'invito a “farsi controllare” a cose fatte.

Gli pseudo-vantaggi e falsi privilegi per i gruppi più “a rischio” hanno finito per giustificare la trascuratezza da parte delle autorità sanitarie e delle organizzazioni sociali, e chi ci rimette di più sono gli omobisessuali, privi di appartenenze e privati di cittadinanza con la scusa della non interferenza.

Il regno delle ombre

Si potrebbe dire che il dado è tratto per buon numero di coloro che ricorrono ai test diagnostici, avendo alle spalle o davanti a sé una quota di alto rischio obbligatorio da correre per la profondità dei meccanismi conflittuali o per la mancanza di coscienza personale. Di rado si ha a che fare con uomini liberi o di scelte rispettabili pur se ingiustificabili o non condivisibili (sfidare l'inferno senza batter ciglio e senza pianger lacrime di coccodrillo). Di solito sono:

• Soggetti che hanno esaurito la carica automatica di esposizione possibile e sono già stati contagiati (arrivano per la diagnosi che conferma e sigla un processo o un destino), sovente riprendendo subito dopo la ricarica a funzionare macchinalmente.

• Soggetti che pur avendo rischiato quasi tutto non risultano Hiv positivi (o sono affetti solo da una “banale” MTS) e si autorizzano a non cambiare nulla o il minimo del non-stile di vita sessuale.

• Soggetti senza oggettività alla ricerca di un colpevole cui imputare il deficit nell'area sessuale/relazionale e di una spiegazione del male di vivere o di essere (la minaccia è fuori, l'Aids è causa e giustificazione di tutto ciò che non va).

Alcuni ricusano l'idea stessa di responsabilità personale, a volte con sfacciataggine altre con un po' di malessere, perché attribuiscono il disagio e il pericolo sempre a qualcuno o qualcosa (alla società che non fa campagne informative, all'ambiente gay troppo promiscuo, ai partner che tendono tranelli, etc.).

C'è chi acconsente a ulteriori accertamenti per MTS, ma non è interessato a mali curabili e intimi (le malattie veneree infatti non rimettono in discussione e non provocano “smascheramento” in un ipotetico contesto sociale o pubblico); chi non si vaccina per epatiti dopo aver richiesto/preteso “il check up completo”.

I più si tengono “controllati” per esentarsi da riflessioni personalizzate (non apriamo il capitolo di quei donatori di sangue che di fatto sono parassiti e di quelli che si mettono con i donatori per sentirsi al sicuro!) .

Gli operatori pensano agli utenti come tabulae rasae, mentre sono quasi tutti “informatissimi” e tuttavia: o impotenti (non sanno come rendere utile o mettere in pratica ciò che hanno appreso) o in balia di nozioni parcellari (che li tengono inchiodati o in ostaggio agli incubi salutistici), oppure incapaci di uscire da circoli viziosi e dai sensi unici di bisogni meccanici. Ne deriva un uso anti-preventivo del test sierologico:

• per annullare e cancellare, ritrovarsi intatti e immuni da esperienze, contatti, intimità non volute (turismo sessuale, prostituzione, trasgressione, omobisessualità), mediante la refertazione di un sangue privo di tracce/macchie per avere pseudo-coscienze pulite;

• al posto del ripensamento e del pentimento, per non aver bisogno di emendarsi, perché basta la negatività dell'Hiv per essere “a posto” e “sani” (con la garanzia che nessuno venga a sapere i fatti propri).

Quel che si è fatto e si fa non esiste grazie alla bacchetta magica del test di screening, che annulla responsabilità e conseguenze, o le trasforma, quando inevitabili, in patologie da far curare agli specialisti.

A proposito: se è anomalo che siano le ONG a fare divulgazione “scientifica”, c'è di converso da chiedersi perché debba essere l'infettivologo l'interlocutore giusto per la comunicazione sulla prevenzione. Da uno medico specializzato in malattie infettive e tropicali ci si dovrebbe attendere la competenza per diagnosticare e curare, non la capacità di entrare nel merito del comportamento sessuale e delle dinamiche psichiche.

E non è assurdo che si paghino visite infettivologiche per porre quesiti sui se e i magari o per esporre dubbi e convincimenti aprioristici? Chi andrebbe da un ortopedico per analizzare le probabilità teoriche di rompersi una gamba sciando o cadendo sulla neve? È corretto deontologicamente accettare tali richieste dei “pazienti” (specie psichiatrici)?

È comunque negli Ambulatori pubblici per MTS che si verifica la più eclatante confluenza dei mille lati oscuri del sesso e delle preoccupazioni narcisistiche fondate sull'ambiguità e sulla pavidità. Si tratta di un importante e sottovalutato osservatorio di: ignoranze, infantilismi e idiosincrasie sessuali; rammendi e strappi della vulnerabile tela della sessualità maschile; manifestazioni del disturbo mentale nella percezione del sesso e della salute; alienazioni e dissociazioni urbane; timori irrazionali e operazioni di controllo del destino.

Talora danno l'impressione di canali di scolo e cunicoli bui in cui vengano convogliate le scorie non trattabili di anomalia, patologia, perversione e antisocialità. Da tale punto di vista prevenire è una vera missione impossibile e si può al massimo tamponare con i farmaci la diffusione delle malattie veneree; ma nel caso dell'Hiv la diagnosi non prelude alla cura e alla presa in carico, per cui la sorveglianza si smarrisce nei meandri della privacy delle decisioni individuali.

Difatti, se i soggetti con disagio psichico vi convergono proprio perché non rischiano di essere identificati ed etichettati, molti altri vi giungono confidando sull'anonimato, cioè sul poter comparire in veste ufficiosa e non ufficiale.

Vi si accede dalla seconda vita e si passa per l'entrata di servizio (ingresso riservato o della servitù?), che non corrisponde alla sfera privata, bensì alla parte di sé che non si riconosce e non si integra, non si vorrebbe o non si riesce a “volere”; componenti di cui ci si vergogna (spesso a ragione), che si vogliono celare anche a se stessi, degradate o squalificate, trascurate o disprezzate (in una parola l'Ombra in termini psichici).

Vi si incontrano uomini e donne in fuga, anzitutto dai parenti (che sono gli ultimi a rendersi conto che qualcosa non va), lontani da casa e dai luoghi di origine, in altre città o all'estero, ove si può sembrare “normali” disperdendosi nella massa (chi fa caso a chi?).
Distaccatisi dai congiunti per tentare di svincolarsi o “liberarsi” da inibizioni, cadono in trappole ordite dai sensi di colpa, condannandosi a pagar caro la presunzione di voler far da soli e ricusare i vincoli.

Per certi aspetti, non è impropria la definizione di stampo dantesco di violenti secondo e contro natura, perché pretendono di forzare la realtà, tenere i piedi in tante scarpe, far tornare tutti i conti, non farsi mancare niente mancando infine di se stessi.
Per questo per lo più ricercano nei servizi sanitari contenimento e non figure o punti di riferimento, lo sfogo momentaneo della violenza emozionale e non la comunicazione o il rapporto con "consulenti".

Vogliono risposte, non essere aiutati a porsi domande, perché la non problematizzazione della condotta sessuale e delle pulsioni comporta l'attuazione di agìti seguiti dall'esigenza di rapide soluzioni. L'obiettivo finale è non dover prendere atto di conflittualità e responsabilità (una frase tipica è: "Posso stare tranquillo? Sono sano?”).
E vai con le notizie false e tendenziose fornite nei colloqui, il silenzio ostinato sulle pratiche sessuali, il fare come se non fosse successo nulla, l'azzeramento di errori, defettualità, fallimenti.

Esame di irrealtà

Si è costretti a registrare il dominio incontrastato della passività nelle interazioni sessuali, le cose accadono, magari su pressione di altri o delle circostanze, per spinte in-controllabili e in-conoscibili. Gli atti sessuali paiono evasioni letterali da se stessi, con un corredo di finti rimorsi, false espiazioni, scongiuri da miscredenti.

Viene da pensare ai personaggi di Pirandello inconsapevoli dei loro profondi e ambigui impulsi, che agiscono senza vedersi agire, trascinati da un demone. E non si riesce a evitare l'impressione che gli uomini siano corde tese tirate da forze occulte in diverse direzioni contemporaneamente, dando ragione all'affermazione di Jung secondo la quale “siamo un processo psichico che governiamo a malapena”.

Viene altresì da riflettere sugli insegnamenti di Seneca circa il fatto che molti tengono ben stretta la loro schiavitù dai vizi di cui pure si lamentano. Isolamento, solitudine, intolleranza al vuoto, mistificazione fanno il resto, perché le debolezze negate, rimosse, ignorate ritornano ciclicamente e strangolano l'Io.

Quel che più colpisce tuttavia è il rilievo sistematico del retroterra di superstizione presente nelle persone più disparate, istruite nella scuola del poco obbligo e laureate nelle università che non si negano a nessuno. In questo senso dietro il test Hiv c'è tutto un pullulare di riti e sortilegi che fanno dei medici dei paragnosti o santoni e dell'esame sierologico un analogo della lettura dei fondi del caffè o dei tarocchi, nella speranza di influenzare la fortuna o la sventura.

È l'ingresso in una dimensione parallela di sconcertante puerilità ove è padrone assoluto il pensiero magico. Non è semplice irrazionalità (sentimenti, sensazioni, intuizioni, componenti extra-razionali), perché è una modalità primitiva di pensare e generare “verità” (quindi di leggere e interpretare), su cui si fonda quella che chiamiamo “magia” (bianca e nera).

È la razionalizzazione di vissuti (infantili) sotto il dominio delle emozioni e dello scarico di tensioni: “concezioni erronee piene di desiderio o cariche di paura” nella descrizione di Fenichel. Ne troviamo tracce pure nelle leggende metropolitane (la più datata associava l'Aids al tronchetto della felicità, la più recente vede anonimi frequentatori di locali notturni armati di aghi fatati e fatali coi quali pungere gli ignari convenuti).

In genere se ne sottovaluta la gravità perché la si reputa frutto dell'emozionalità, dimenticando che lungo il filo della distorsione dell'ideazione si arriva sino al delirio, magari a due o più. Per altro, attraverso tale “testa” arcaica, propria di un apparato psichico proto-mentale, è assai facile l'accesso alla somatizzazione perché, sotto le apparenze di logicità e lucidità, i contenuti profondi rimangono bloccati e inattingibili.

D'altronde, la superstizione (letteralmente: sovra-struttura, ciò che sta sopra) è stata la fede dell'uomo nell'antichità ed è ciò che ci fa credere a cose che sappiamo non vere, mescolando suggestione, timore, potenze e influenze soprannaturali (Umberto Eco ricordava ne Il pendolo di Foucault che “la credulità è una passione della mente”).

Un'immaginazione elementare e povera, statica e stagnante (incapace di innescare dinamiche creative), può ingigantire l'oscurità alimentando a dismisura la non e l'anti-razionalità fino a farci ritrovare in balia di mostri (“i bambini temono spauracchi inesistenti, i fanciulli cose insignificanti”, ammoniva Seneca).

Nelle nuove generazioni vediamo dunque l'effetto a distanza della “peste del Duemila” degli anni Ottanta, in misura maggiore tra i giovani eterosessuali che ne hanno sentito sparlare e in misura minore tra quelli omobisessuali che ne sono stati appena sfiorati.

È triste constatare fino a che punto per i “ragazzi” con personalità fragili e immature (per noi la norma) lo spettro dell'Aids costituisca un vero e proprio fattore traumatico. Le loro deboli menti da fanciullini o adolescenti sono preda di torbide “credenze” a dispetto di brillanti risultati scolastici o addirittura dei diplomi di laurea.

Un'attenuante può essere invocata, perché il pensiero sulla finitezza e sulla mortalità raramente è alla portata del singolo individuo, essendo per così dire pensato in comune al gruppo di appartenenza (in primis nella fede religiosa): ci sono verità profonde con le quali ci si confronta insieme ad altri uomini, in una comunità, mediante ritualità, tradizioni, valori, prodotti culturali.

Nelle grandi metropoli, al contrario, ciascuno è ridotto alle proprie risorse “psichiche” effettive e condivide semmai col prossimo esclusivamente la de-strutturazione della massificazione. Quanta sfiducia, infatti, e pessimismo nei confronti del genere umano, delle opportunità di crescita e in buona sostanza della vita medesima, alberga e cresce nella cronica frustrazione dell'elaborazione dei temi esistenziali rimpiazzata da corazze e maschere per tenere a bada rabbia e incomunicabilità.

Anche per questo agìti sessuali pur banali sono in grado di far vacillare e di squilibrare segnando in qualche caso per sempre. Per tanti nostri giovani vale quel che si dice per i bimbi piccoli: “ha preso uno spavento”, perché sappiamo bene che la troppa paura resta, non viene cancellata o superata. L'eccesso di timore dell'Aids in particolare fa esistere solo l'Aids e fa scomparire la realtà (a partire dalle MTS).

Ciò spiega in parte perché ci si affanni a temere l'Aids (o il tumore), invece di esprimere l'ansia per la fine. Fa sorridere d'amarezza sentir affermare che ci si preoccupa dell'Hiv “perché di Aids si muore”. Ovviamente le angosce di morte sono inevitabili, è però la rimozione del pensiero sulla morte a produrre patologia per il blocco dell'accesso al linguaggio o alla simbolizzazione.

La famosa formula delle organizzazioni anti-Aids statunitensi “silenzio uguale morte” andrebbe dunque reinterpretata, perché è il silenzio sulla morte a fare il gioco dell'Hiv. Invero, alcuni tipi di atti sessuali, quali quelli mercenari o con perfetti sconosciuti (cioè, “nessuno”), possono dare comprensibilmente l'impressione di incontri ravvicinati con la morte sui confini dell'Io.

La morte che promana dall'eros rappresenta un eccesso simbolico perturbante e sembra un paradosso: si può morire per un po' di sesso?! Semplificando, una “sciocchezza” può essere esiziale? Per questo si giunge dritto al cuore o alle viscere delle persone attraverso il dialogo sulle inquietudini connesse all'intimità sessuale.

In questo senso i servizi per l'Hiv sono a pieno titolo un pronto soccorso delle paure, nel quale arrivano ai ferri corti le contraddizioni sulla libera sessualità e le resistenze ad accettare di vivere non meno che di morire. E una volta di più ci illumina una massima di Seneca: “Senza il coraggio di morire, la vita è servitù” (Lettere morali a Lucilio).

È interessante quale segno dei tempi che, mentre in origine erano i gravi psicotici a venire travolti dalla marea pubblica dell'Aids (“psicosi dell'Aids”), attualmente sono soggetti con disagi di lieve o media gravità a preoccuparsi morbosamente e pochissimi di loro si dichiarano convinti di avere l'Aids conclamato, agitando perciò il fantasma dell'Hiv quale patologia letale a lungo termine e non più a breve termine.

Va detto a chiare lettere che la siero-negatività non è salute (neanche riferendosi al mero ambito sessuale) né corrisponde a buona condotta (solo i fobici usano precauzioni ad oltranza, eppure temono e tremano - tanto per citare a sproposito Kierkegaard).

Ne danno prova coloro che si sentono sempre sul filo del rasoio giocando alla roulette russa del colpo fatale perché hanno il fiato della morte sul collo avendo ricusato il confronto con la mortalità. Dato per scontato che costoro vorrebbero poter non morire, non si può dire tuttavia che vogliano vivere; infatti non si curano della vita e non fanno nulla per migliorarla.

Al polo opposto, pure coloro che intendono la salute in senso igienico o microbiologico, danno importanza alle malattie e basta (non a scambi interpersonali, vissuti, sentimenti), usano precauzioni per egoismo salutistico, non volendo nemmeno sporcarsi le mani.

Mattia Morretta (Sito Web Omonomia, aprile 2007)