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La prevenzione dell'HIV senza frontiere

Sulle riviste gay si informa il gentile pubblico che adesso per la prevenzione dell’Hiv non c’è più solo il condom, poiché a dare un contributo insperato al contenimento del contagio sono le terapie che minimizzano la carica virale.

Stavolta il concetto è più articolato, l’intento è di invogliare a fare il test Hiv i numerosi incoscienti bendati e dissociati che circolano negli ambiti gay, facendo loro intravvedere il vantaggio dell’accertamento diagnostico e del trattamento antiretrovirale: “se risulti Hiv positivo, puoi curarti efficacemente e diventare poco o nulla contagioso!”.

Il presupposto è che, con la giustificazione dell’incurabilità e della contagiosità permanente, molti proseguono indisturbati nelle pratiche e nelle abitudini rischiose.

Per costoro non è vita doversi sentire in sospeso e infettivi “per sempre”, dato che in quanto omosessuali si è gravati dal peso della anormalità e della colpevolezza, che è difficile farsi accettare, trovare un partner sensibile, stabilire relazioni durature.

Meglio tenere la testa sotto la sabbia, assaporando almeno il godimento le avventure le passioni da poter ricordare nel caso si fosse costretti al pensionamento o all’invalidità dall’Aids.

Con l’aria di dire cose particolarmente intelligenti e originali, si sostiene allora che fare il test sierologico è importante per render consci tutti coloro che non sanno di essere infetti e che a causa dell’ignoranza continuano a esporsi e esporre altri all’infezione.

Come come? È il fatto di non sapere di essere sieropositivi a determinare un condotta sessuale da racconto del terrore alla Edgar Allan Poe? E il mezzo per rimediare deve essere all’insegna del perdona loro perché non sanno quello che fanno?!

Non considerando le Malattie veneree, l’Hiv non è tra noi da circa un trentennio?! Son queste le conclusioni o gli sviluppi di chi ha brandito l’informazione quale arma di dissuasione e persuasione? Si possono fare passi avanti, se si continua ad azzerare il percorso e a puntare su dettagli marginali?

A parte le cifre su alcol e droghe, non basterebbero le infezioni a trasmissione sessuale (per lo più “curabili”) a sollecitare un impegno individuale e collettivo allo scopo di promuovere con serietà attenzione, rispetto o semplicemente buon senso?

Se davvero si tenesse alla salute della “categoria”! Si avesse il coraggio di riconoscere che una buona fetta di omo-praticanti non è in grado di accedere alle conoscenze sanitarie e alla consapevolezza per seri problemi di auto-accettazione; di non aver più argomenti e motivazioni per contrastare la deriva consumistica.

Si smettesse di credersi paladini del sesso mentre lo si riempie di insulti e orrori; si sollevasse il velo sull’inconsistenza della socializzazione gay…

Quel che si constata quotidianamente è che non associare la diagnosi di Hiv alla gravità e inguaribilità spinge schiere di deboli e svantaggiati a rischiare di più e più a lungo, in maniera esponenziale e per periodi di anni.

Lo prova il fatto che si arrivi al test dopo aver esaurito il credito di fortuna con esposizioni ripetute fino ad un evento traumatico o alla comparsa di sintomi inequivocabili (trascurati per mesi) e non rimane che prender atto.

In effetti, i più non agiscono nel sesso in base a previsioni razionali e ragionamenti, bensì in base alla percezione del pericolo: se non c’è sensazione o vissuto di minaccia incombente, non c’è freno da poter tirare o parapetto cui appoggiarsi per guardare il panorama (o l’abisso). Per non citare quelli che ricorrono alla roulette russa per accertarsi di essere ancora vivi e non già trapassati.

Sanno i fautori del marketing nell’informazione sull’Hiv che nella Milano capitale economica e amorale d’Italia furoreggiano le notti dei morti viventi?! Che è di moda praticare e dichiarare il bare-backing, frequentare con orgoglio locali e finanche appartamenti “privati” per cosiddetti scambi di coppia (?), sperimentare incontri a variabile multipla, mosca cieca al buio, con la certezza di passarsi morbi venerei ad alta fedeltà?!

Perché tra gay la globalizzazione concerne il peggio, il sadomasochismo delle confraternite lugubri in stile XVII secolo flagellato dalla peste, il niente travestito da frenesia erotica!

E i tenutari di casini gay, emulando le maîtresse di una volta, accompagnano i clienti con patologie in atto a fare gli esami affinché si curino e possano tornare sul campo di battaglia (sullo sfondo si ode la Carrà cantare: “son pazza / lo ammetto / mi spendo tutto / con questo finimondo che ci sta”!).

Robot prodotti in serie nei laboratori di fantascienza gay o angeli in decomposizione del genere Mishima ?!

Dove porta la tattica del rendere conveniente il test? E chi può abboccare all’amo? Incentivi statali per la rottamazione hanno senso nella sessualità? Oggi più che mai non è lo status sanitario e sociale di Hiv positivo a impedire la decisione di fare controlli e di adottare misure protettive.

Non ci si rende conto che alcune frange di individui con disagi psichici o disordini pulsionali (abbandonati a se stessi in un contesto in cui non di rado i compagni di letto sono separati in casa) tendono ad accumulare il massimo di rischio possibile, fino a sfidare l’intero universo microbiologico e cadere a peso morto contro l’Hiv, per potersi aggrappare ad una diagnosi solida, un po’ come i naufraghi che giungono finalmente a riva dopo esser stati in alto mare in balia delle onde.

Può sembrare assurdo, ma qualcuno afferma, a posteriori, di aver effettuato il test “per interrompere la catena del contagio”. Gesto nobile dopo l’azzardo inevitabile, ravvedimento del peccatore incallito, immolazione del caprone o agnello per la salvezza del gruppo?

E chi, dopo le esternazioni a caldo della prima ora, l’astensione fisiologica dal sesso nell’immediatezza del colpo o della ferita, sarà capace di mettere in pratica i buoni propositi e perseverare? E perché dovrebbe farlo, in nome di quale valore o premio?

Su chi potrà contare per ottemperare all’impegno? Sui farmaci prescritti dal distratto specialista infettivologo, che non ha nel suo bagaglio tecnico e professionale la sfera del comportamento sessuale e sorvola sull’argomento?

Fatto sta che è di riscontro comune l’esagerazione nell’esposizione da parte di chi sa di essere Hiv positivo, o di chi è ad un passo dal saperlo (di lì a poco farà il prelievo, magari rinviato con mille scuse).

Senza rendersi conto della provocazione, si racconta di prender parte ai festini di sesso nature e droga free, di aver penetrato e essersi fatti penetrare con tanto di rottura del frenulo e abbondante sanguinamento. Alla lettera, la bonne défonce del vocabolario porno francese (défoncer = sfondare, scassare).

La rivelazione della sieropositività nota di uno dei due avviene a cose fatte, d’altronde che tarocchi sarebbero se la luna nera fosse uscita in anticipo!! Alcuni dei “partner” corrono a fare la profilassi (PPE), altri rimuovono e chiudono lo scheletro nell’armadio in cantina, in attesa del risveglio.

È proprio vero che l’avidità di sentire ha in sé l’anelito al morire e che è la violenza l’altra faccia della medaglia del libero sfogo sessuale.

I più sfacciati estraggono da situazioni di sesso estremo frasi di circostanza: non si immaginava di arrivare a quel punto di ingaggio, si è stati colti alla sprovvista, l’appetito vien mangiando, si incontra “un muro” se si propone il lattice per la fellatio, il preservativo non compare perché non c’è oppure è “largo” o “strettino” (guai a portarselo dietro e della misura adatta). E via con la donazione di organi, di seme, di sangue.

Per altro, non è un segreto che alcuni partner di Hiv si infiltrino tra i donatori AVIS, in incognito grazie al certificato di matrimonio (con moglie oscurantista, s’intende) e all’alibi del profilattico nel coito anale con il compagno (questo sì segreto). Senza parole.

Si può credere che la vendita del test come prodotto a prezzo calmierato sortirà più risultati del “terrorismo” o della distribuzione gratuita di profilattici? Chi legge nel club hard e a media luz articoli o brochure sulla “prevenzione”?

Gli ultimi a prendersi la briga di seguire le argomentazioni sono senz’altro i fatalisti e gli autolesionisti. Forse da vicino e in un clima di fiducia, nel rapporto diretto a tu per tu tra persone raziocinanti, nel dialogo con educatori pazienti, negli spazi accoglienti di una ONG.

Con beneficio d’inventario, se vi sono Associazioni che intervengono per mettere a tacere notizie su episodi di meningite tra la clientela delle saune, per non suscitare allarme e discredito sulla stampa…

Maggior profitto verrebbe dalla responsabilizzazione dei più “sani” (con più risorse emozionali e mentali), che non aspettano l’ultimo metro per auto-determinarsi o decidersi a sottoporsi ad accertamenti sierologici e visite per MTS.

Purtroppo, soprattutto la prevenzione tra gli Hiv positivi è la frontiera che nessun convoglio umanitario raggiunge, per infingardaggine e disonestà intellettuale.

Da tale punto di vista, l’accento sulla riduzione di contagiosità grazie ai farmaci, quale incoraggiamento ad accertare e accettare la diagnosi di Hiv, si traduce in ulteriore disincentivo all’uso del condom?

Non si dà troppo l’idea che l’importante sia diagnosticare, curare e assistere gli Hiv positivi? Puntando ad avere più diagnosi “precoci” e fidando nelle terapie per tutto il resto non si fa piazza pulita della educazione sessuale?!

Vale la pena di notare che gli aspetti sociali dell’Aids sono radicalmente mutati. Il malato è stato in origine un capro espiatorio primitivo (processo inconscio, brutale ed evacuativo) e in seguito una vittima sacrificale (processo simbolico, conscio e finalizzato).
Proprio l’adattamento alla sorte ingrata delle prime generazioni di persone con Aids ha consentito di valorizzare quel "sacrificio” e offrire un contributo al consorzio civile.

La successiva liberazione dal fardello pubblico o dalla croce di massa ha infine riconsegnato ciascun Hiv positivo alla sua privatezza e ai suoi handicap soggettivi, il che equivale spesso ad una condanna al silenzio e alla mistificazione anche tra pari.

Sono convinto che la trasparenza nella rete interpersonale e il contenimento attivo del contagio aiuterebbero il sieropositivo (supportando l’autostima con l’etica contraria al degrado e alla colpevolezza per la trasmissione del virus) e farebbe del bene alla aleatoria comunità gay.

Se, invece, non ci si può attendere l’utilizzo di precauzioni o il buon esempio nemmeno da chi è Hiv positivo, siamo alla disfatta totale e tanto vale organizzare suicidi di massa.

In questi anni, infatti, si è allungata a dismisura la scia di uomini preda di torvi rancori per esser stati presi a tradimento e fatti cadere in un tranello da quanti tacciono o negano il proprio stato sierologico: vendette a catena che non hanno nulla da invidiare alle faide di mafiosi o camorristi.

La verità è che l’autotutela omo-sessuale è un’impresa da supereroi per via della polverizzazione dei freni inibitori e l’atomizzazione dei singoli individui. L’eccesso di facilitazioni sessuali genera alla lunga una disgregazione che può giungere sino alla franca putrefazione.

Ecco perché il riferimento ideologico al preservativo è tanto pretestuoso, quanto fallimentare il messaggio “non dobbiamo abbassare la guardia” laddove non si è alzata che la retorica.

Povero preservativo, visto col senno di poi, è quasi niente nella giungla del sesso omo e ci sarebbe da chiedersi come si potesse farne a meno in passato nella penetrazione anale, come mai non fosse emerso quale bisogno e sussidio dall’interno del mondo gay.

Ciò nonostante, nessuno ritiene opportuno rimboccarsi le maniche per affrontare i nodi della pericolosità intrinseca degli ambienti, della psicopatologia diffusa e alimentata dall’assenza di criteri civili negli scambi relazionali (compreso il fai da te nella rete web!).

Non sarà che sotto sotto si considera giusto il tributo di malattia per chiunque viva l’omosessualità? Come trascurare che sono in tanti a lasciarsi andare all’autodistruzione dimostrativa, per richiamare l’attenzione e verificare l’effetto o per confermare il pregiudizio sull’indifferenza altrui?

Chi non ha desiderato talora di esser trattenuto e fermato (lo ricordava Pasolini a proposito dei momenti di disperazione), o di chiedere al prossimo perché non ha mosso un dito, dove erano gli altri, perché non hanno capito un’esigenza di aiuto?!

I segnali di fumo parlano chiaro, il coro è unanime, e riguarda etero e gay in modo parificato: è improponibile uno sforzo organizzativo minimo o una volontaria limitazione nella sessualità da quando la mortalità è uscita di scena e l’orgia delle “opportunità” è diventata legge a furor di popolo.

Se la campana non suona più per nessuno (ed è un falso che si potrebbe definire storico), se l’erotismo e l’amore devono essere “scacciapensieri” o “senza pensieri” per ossequio al modello della perfetta democrazia edonistica, se porsi o restare nei limiti è da perdenti o stupidi, il discorso sulla responsabilità nel sesso è presto concluso, anzi non si inizia neppure.

Stiamo tornando all’era pre-Aids, allorquando le precauzioni erano fisime di eccentrici o igienisti, oppure presidi per coloro che dovevano “reprimersi” (perché sposati o con ruoli pubblici).

Il processo è facilitato dalla impermeabilità di moltissimi omosessuali alle condizioni ambientali reali, una sorta di bozzolo adolescenziale perdurante fino alla vecchiaia, che impedisce di tener conto dell’attualità; per non dire del convincimento di esser chiamati a vivere in funzione del corpo.

Si ripeteva sovente negli anni Ottanta: “un virus non conosce morale”. Quanto si è dimostrato vero a rovescio, perché il virus ignorava e ignora il moralismo vigente, i gay, però, non tengono in alcun conto la moralità, e questo fa la differenza.

Altro proclama dell’epoca iniziale dell’epidemia era “siamo tutti sieropositivi!”, intendendo che chi era scampato all’Hiv non poteva vantare meriti, che bisognava comportarsi come se si fosse Hiv positivi anche senza aver fatto il test (dunque adottando “precauzioni”), che si dovesse ritenere chiunque potenzialmente infetto, che non giovasse prender le distanze o proiettare il male (gioco del ce l’hai).

Tutti contenuti validissimi e pertinenti, non fosse che sanno di noiosa preistoria. Nella Sodoma del day after vi sarebbe lavoro a tempo pieno per ambientalisti contro l’inquinamento e il surriscaldamento del pianeta gay: a cominciare da blitz, sit-in e picchetti all’ingresso di centri commerciali e postriboli ove è garantita la diffusione di patologie fisiche e psichiche.

Da noi il sesso “americano” è arrivato senza l’allegato di pragmatismo anglosassone, che prevede la pila elettrica negli angoli bui da parte del personale di circoli e discoteche gay, allo scopo di impedire penetrazioni senza preservativo.

Lo sappiamo, gli italiani sono garantisti, siamo nella patria del diritto e della libertà, fosse pure soltanto di farsi del male.

Cinico Diogene alla ricerca dell’(u)omo grido con un antiquato megafono: “ri-svegliatevi!”, non affidate a nessuno (imprenditore, attivista, ministro che sia) la vostra sessualità, la salute e la vita, non delegate la responsabilità perché in essa risiede il precario e modesto potere sull’esistenza!

In una comunità gay costellata di zone franche son ben altre le contaminazioni auspicabili e fruttuose, a partire dalle regole da far circolare e trasmettere porta a porta.

Non servono spot più accattivanti o reclame con doppio senso: occorrono norme condivise e sistemi di controllo, perché tutti i comportamenti individuali con risvolti sociali esigono definizione formale e delimitazione collettiva. Basta col morir d’amore!!

Mattia Morretta (aprile 2009)