Che vi sia ciascun lo dice A proposito di poetica odierna
Non mi è congeniale parlare di autori viventi, perché di norma mi attengo alla prudenza nei confronti dell’attualità, a cominciare da una sana diffidenza verso la notizia del giorno che è sempre una forma di dettato sociale (l’ordine del giorno, appunto). È una questione di igiene mentale e di dieta intellettiva consona alla propria costituzione, ricordando quel che affermava Ida Magli (di cui ricorre il centenario della nascita), cioè che il cervello mangia come lo stomaco, ha bisogno di proteine specifiche e va subito scartato quello che non nutre e non fa per noi.
In particolare la mia preferenza va al passato e meglio ancora al trapassato, che consente una distanza sufficiente per leggere e capire più profondamente i testi letterari, in modo critico e “storico”. Tanto è vero che Marguerite Yourcenar ha disposto nel testamento che sia possibile accedere ai suoi scritti personali solo dopo mezzo secolo dal decesso (avvenuto nel 1987), il tempo per passare dalla cronaca alla storia. Qualcosa che valeva all’epoca, poiché al momento in apparenza tutto è “evento” o “senza precedenti”, sicché non ne rimane niente o la traccia presto svanisce.
La distanza serve altresì per sorpassare peculiarità caratteriali e fisionomie somatiche di chi ha firmato l’opera d’ingegno. Meglio essere amico di un’ombra, contare su una parentela spirituale, piuttosto che appoggiarsi all’esperienza diretta e al rapporto di confidenza con un contemporaneo. Conoscere qualcuno di persona non aiuta nell’approccio alla sua produzione, perché difetti, vizi, idiosincrasie, pressioni reciproche condizionano il “giudizio”. Viene in mente Violette Leduc: “Visti da vicino certi paesaggi deludono coi loro sentieri fangosi, le loro case in rovina”.
Inoltre, mentre i morti non si offendono e non reagiscono, i vivi sono permalosi e competitivi. I primi ci aiutano a vivere o ci rianimano, i secondi spesso contribuiscono a farci fuori in molti sensi. Comunque sia, “i più preziosi sono i morti”, come amava ribadire Dickinson, e nella sua scia Cristina Campo, che riteneva possibile “un amore perfetto” solo coi defunti.
A sua volta Edward Morgan Forster in una lettera del 1937 scriveva: “I morti che danno più soddisfazione sono quelli che hanno pubblicato dei libri”. E nel clima del secondo conflitto mondiale dichiarava di trovare “tutto lo splendore e tutta la solidità” nei volumi dei secoli precedenti, per esempio “il passato inaccessibile e inviolato di Madame de Sévigné” (31 ottobre 1940). L’ha proclamato pure Nostradamus, annunciando l’onore e il beneficio postumi in una quartina delle celebri Centurie:
Per cinquecento anni più conto non si terrà Di colui che del suo tempo fu ornamento Poi gran luce d’un tratto porterà Che il secolo renderà contento. (III, 94)
Noi del resto siamo successori di antenati. E l’originalità è un feticcio della modernità, per dirla con Neruda, se mai ha più senso parlare di genuinità. Tutto è già stato detto e ridetto, per certi aspetti non resta che il resto.
Ciò premesso, cosa sia e dove sia la Poesia è un mistero, al pari dell’Araba Fenice, perciò non rimane che argomentare di quanti se ne dicono depositari e rappresentanti. Certo oggi non si può non notare che più è prosaica e mercificata la società, più spuntano poeti come funghi, una vera epidemia di poetite. Quanti versi attuali sono tali nel senso di smorfie e suoni sguaiati, sfoghi verbali impregnati di personalismo e psicologismo, sfacciata ambizione al nome in cartellone e sul frontespizio.
Non a caso Balzac invitava a separare chi scrive poesie da chi è poeta, puntando l’indice nella trilogia Illusioni perdute (prima parte I due poeti, 1837) sulle miserie dell’industria culturale consolidatasi nei primi decenni dell’Ottocento. Nel racconto conclusivo Le sofferenze di un inventore (1843), a proposito del protagonista, Lucien Chardon o de Rubempré (per cognome materno), fa il ritratto dell’uomo di poesia, non autentico poeta, che sogna e non pensa, si agita e non crea, quasi fosse una femminuccia piena di vanità. La sorella di Lucien difatti a un certo punto esclama: “Credo che in un poeta ci sia una bella donna della peggior specie”. In sintesi, il generico produttore di versi solleva un polverone, il poeta lo fa calare per permettere a ciascuno di avere una propria “visione” attraverso lo schermo verbale.
Balzac prosegue ponendo un confine tra poesie personali e pubbliche, perché è bene tenere per sé “le sensazioni incomprese”. Ogni vanitoso inoltre proclama o lascia intendere, parafrasando Luigi XIV: “La poesia sono io”. Quanto alla facile ammirazione, visto che i più hanno bisogno delle zucche degli elogi per stare a galla, è importante essere severi o non mostrarsi indulgenti per calcolo, perché non si deve trattare allo stesso modo un poeta e un saltimbanco. Basterebbe citare Plotino, la cui voce risuona nitida dall’antichità: “Occorre essere equilibrati nella stima di sé stessi ed elevarsi senza sfrontatezza solo quanto ci consente la nostra natura”.
Un interrogativo particolare, che è sbagliato rifiutare a priori per posizioni ideologiche, sorge dinanzi a testi di autrici: si può parlare di “poesia di genere”? Intendendo uno sguardo e uno specifico che conferiscono una tonalità di colore non oscurabile e non trascurabile? In proposito, Marina Cvetaeva, che voleva esser chiamata poeta e non poetessa, in Sesso nell’arte (1923) affermava: “La base dell’arte è lo spirito. Il sesso è disgiunzione, nell’arte si ricongiungono le metà separate di Platone”. Tuttavia in Un eroe del lavoro (1925) aggiungeva: “Nell’arte non esiste il problema femminile, esistono risposte femminili a domande umane: Saffo, Giovanna d’Arco, Santa Teresa, Bettina Brentano”. Quindi dietro l’Uno traspare il Due.
Sta di fatto che un tema centrale di molte produzioni liriche di donne è la quotidianità, la cura degli ambienti e delle cose (casa, oggetti d’uso, piante, giardino, animali, cibi), insieme alla dimensione degli affetti e del tessuto relazionale. I messaggi sono spesso indirizzati a persone in carne o ossa, interlocutori meno astratti o ideali, fisici più che metafisici, con un pensiero dedicato esplicito e quasi corporeo.
Una poetica intrecciata, annodata, coincidente col vivere giorno per giorno, per questo slogata, talora rotta o spezzata. Con sedimenti, incrostazioni, rifiuti, scarti della banalità esistenziale. Perché l’essere umano nell’ora per ora di un interno familiare o psicosomatico è una creatura o persino una cosa confusa tra le altre, anzi con minore resistenza al logorio del tempo.
Fa la differenza in effetti partire dalla vita vissuta o dal vissuto, la concretezza umile del quotidiano da cui promana una singolare visionarietà o affabulazione, il vaneggiar o favoleggiar che è agrodolce in un mare di versi. Può apparire uno scrivere in volgare (comune a tutti, corrente), parlando della realtà minuta e materiale, associata alla sopravvivenza. O ancora gergale, un vocabolo che fa riferimento dal cinguettio degli uccelli, incomprensibile, proprio di comunità e individui marginali.
Sono sovente parole domestiche e addomesticate, tappeti e lenzuoli volanti per osservare il suolo da una distanza media e contare sulla madre terra. Cieli ad altezza di terrazzino, balcone e davanzale. La pagina si rivela allora un rettangolo di tregua, evasione, libertà, una zattera di carta in una vita battuta da tutti i venti e sottoposta a obblighi e dazi in ogni porto sociale.
Di nuovo sovviene Violette Leduc, che in Trésor à prendre (1960) parla di “transumanza del quotidiano”, quando ci si infila la vestaglia nella sala d’attesa della mente e intanto si percepisce la morte che fa cucù dentro il sangue. Degno di nota è che Leduc paragoni i libri non pubblicati a bambini abortiti, destinati alla scomparsa, in quanto non nati (non venuti al mondo) nelle vetrine.
Un aspetto poco considerato riguardo alla stesura di testi odierni, rispetto al passato recente e remoto, è il ruolo svolto dagli strumenti utilizzati, il passaggio dalla manualità alla macchina per scrivere, in seguito al computer e ai dispositivi elettronici. Oramai non si tratta più di infilare simbolicamente il messaggio in una bottiglia per affidarlo alle acque (o in una cesta come Mosè), bensì di digitare, salvare, archiviare, inviare on line, dovendo il fine subire il condizionamento del mezzo, che si arroga il potere di tenere in memoria, incurante del rischio di black out o distrazione fatale.
E questo rende più evidente il salto dell’identità personale compiuto nell’ultimo mezzo secolo. Se il soggetto premoderno era un pezzo unico (tutto d’un pezzo), nel quale esterno e interno erano omogenei, due facce della stessa medaglia, dentro e fuori si rispecchiavano, conservando l’eco dell’assoluto, quello moderno era caratterizzato dal conflitto con il mondo e da una vita interiore intensa e angosciosa (la morte era la sua, non quella genericamente umana). Da qui derivava il senso di isolamento e di divisione, l’impressione di trovarsi di fronte o contro la società e di avere problemi individuali, singolari e non solo collettivi.
Poi l’individuo tardo post-moderno è diventato preda dell’omologazione e della globalizzazione, l’interno evacuato e spostato all’esterno, il dialogo interiore riassorbito nella connessione continua dei mass media. Infine ha prevalso l’identificazione con la macchina, modificando il linguaggio in coerenza col modello informatico e tecnologico, sino all’intelligenza artificiale e all’esistenza virtuale. La consapevolezza pertanto è alterna e tende a spegnersi sostituita da stati intermittenti di veglia o franco sonnambulismo.
Ecco perciò l’impressione di scrittura autistica di certa letteratura, non destinata alla comunicazione interpersonale, se mai fatta per confessarsi o comunicarsi (con vago residuo di religiosità). Qualcosa tra l’insalata di parole di cui si parla in psichiatria e il flusso di in-coscienza della psicologia. Un modo di scrivere de-costruito che parte dall’incomunicabilità interiore e arriva a quella esteriore, mordendosi la lingua come fosse la coda. Caduta del segnale, assenza di campo, labirinti verbali dentro una circonferenza senza via d’uscita, in assenza di senso compiuto o con senso incompiuto.
Nello specchio della pagina (dello schermo di computer) si riflettono allora squilibri emotivi e mentali, equilibri instabili. Le parole servono per farsi compagnia e creare baraonda, vogliono fare effetto e vedere che effetto fanno, dare l’idea o l’impressione di un testo sibillino. Quel che resta di un discorso in potenza, monologhi tra sé e sé (ai confini dello sdoppiamento della personalità), dai quali esce una frase, un frammento, un tu apparente, cioè che si limita ad apparire e scomparire.
Quanto a quella che attualmente passa per “poesia civile”, sorprende che basti nominare fatti storici o sociali (accenni alla cronaca), o peggio ancora far professione di fede politica, al pari dei personaggi dello spettacolo accreditati sul red carpet e sul palcoscenico a suon di milioni. Civile è chi vive in modo civile, cioè non barbaro, comodo o opportunistico, non chi vanta appartenenze retoriche, impegni di facciata, faziosità spacciate per scelte a favore dell’umanità (che ognuno colloca dove più gli aggrada o conviene). L’ha esplicitato con efficacia Forster nel Commonplace Book (1942): “La funzione dello scrittore in tempo di guerra? La stessa che in tempo di pace”.
Mattia Morretta
Estratto dall’introduzione alle pubblicazioni di Giusi Busceti (Ufficio del sole, 2022) e Caterina Galizia (Così vanno le cose sulla terra, 2024), presentazione del 13 maggio 2025, Libreria Noi, Milano