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Aidsfobia: Credere nel male?

Fra schiere di sessuomani cinici e privi di scrupoli, il cui pragmatismo sessuale sfiora e sovente travalica la dedizione sacrificale a una causa (persa), si fatica a individuarli e per lo più non vengono registrati come fenomeno: sono i gay affetti da Aidsfobia, cioè preoccupati in maniera morbosa e spropositata per l'eventualità del contagio da Hiv.

Almeno in parte si può parlare di una versione moderna della venereofobia dei vecchi tempi, in verità mai descritta in letteratura tra soggetti omosessuali e invece attribuita in esclusiva a maschi eterosessuali con blocco dello sviluppo psicosessuale e complessi inconsci di tipo freudiano.

Anche questo è un indicatore della post-modernità e della possibilità di definire con più precisione l'insieme generico dei “gay”, attraverso la descrizione di sottogruppi con proprie peculiarità.

D'altronde, come pensare che possano temere l'esercizio del sesso individui denominati in ragione della “tendenza sessuale”, talmente succubi della “spinta erotica” da cercare e fare sesso nonostante i divieti o le censure, in passato, e da identificarsi con l'orientamento sessuale (sia detto con riserva o beneficio d'inventario), nel presente?!

Sicché, i sessuofobi non fanno notizia perché appaiono un controsenso, un paradosso nel senso etimologico del termine (contro l'opinione corrente), oltre a scomparire nella selva degli esemplari tipici della specie, quei loro colleghi di carne di prima scelta avventurieri o militanti del sesso in apparenza senza paura (pur con parecchie macchie) che tanto piacciono ai sedicenti progressisti.

Eppure, si tratta di lontani parenti, con tare genetiche e ambientali simili, due facce della stessa medaglia alle quali però corrisponde più che un diverso valore un differente prezzo in termini di sofferenza e responsabilità.

Al di là degli aspetti psichiatrici, non sono poche le riflessioni rilevanti sul piano culturale.

A ben guardare, i patofobici sono gli unici a credere all'Aids nell'ambiente gay, tanto che qualche volta riescono a far proseliti, di solito per poco, nelle fasi di fervore e dissimulazione del malessere di fondo, le loro prediche vengono presto disertate, il grillo sparlante è ridotto al silenzio con l'isolamento, del resto già connaturato all'esponente medio che si tiene a debita distanza di sicurezza dalla “socialità”.

Nel loro entourage di amici/camerati gay sono presi in giro o posti alla berlina perché mettono ansia, diffondono voci su pericoli ubiquitari, accendono fari per illuminare gli angoli bui, vagliano i più minuscoli dettagli del contatto intimo dei corpi, osservano la pelle al microscopio, rendono l'atto sessuale la scena del fatidico crimine.

Incompresi e negletti diventano un peso, una palla al piede, matti da legare, perché gli altri ragionano così: con tutta la fatica fatta (da chi?) per uscire allo scoperto e decidersi a rompere ogni indugio, adesso che le scorpacciate di sesso sono lecite e che persino l'Aids è curabile quindi accettabile (ma non dichiarabile!), come si fa a darsi da soli la zappa sui piedi o altrove, a rovinarsi la festa, a limitarsi nel divertimento e vietarsi la soddisfazione?!

I diretti interessati intanto ingaggiano una lotta senza quartiere col mostro, finendo col passare degli anni per aggirarsi solitari nelle stanze moltiplicate all'infinito dei castelli in aria costruiti con pazienza certosina, di norma nell'indifferenza dei congiunti e finanche dei medici. Questi ultimi, infatti, concordano con i pazienti sulla “fondatezza” o sulla “logicità” del timore, perché chi è gay è a rischio per definizione ed è giusto, in fondo, che si preoccupi dell'Aids.

Quanti sono gli infettivologi e i dermatologi che accolgono e ratificano richieste reiterate di visite e pareri per minacce inesistenti e addirittura fantascientifiche (la scusante è che sono incontri del terzo tipo!). A suon di bei quattrini si può anche andare contro l'interesse del malato, lo sapevano bene gli psicoanalisti dediti al trattamento nel recente passato e lo diceva anche Freud pecunia non olet.

L'Aids appare per tali persone un'altra occasione per radicalizzare l'identificazione gay e affermare la potenza a rovescio del sesso nella vita del singolo gay, nonché un altro modo di emarginarsi, condannarsi, incatenarsi tenendo sotto controllo la propria diversità, anormalità e pericolosità.

L'Aids viene infatti rivendicato come proprietà privata, marchio distintivo di gaytudine, o meglio dell'inferno spettante ai gay, croce e delizia di chi è sessualmente diverso, forse indiretta gloria del paria (come nell'omonimo romanzo di Dominique Fernandez del 1987).

L'incubo della malattia epocale (a dispetto della attuale “curabilità”) può perciò sostituire lo spettro della riprovazione sociale e della punizione esemplare, fa tornare, autorizzandoli con il linguaggio sanitario della fantomatica prevenzione, i temi della vergogna, della patologia, della anomalia costituzionale.

La colpevolezza cambia vestito e giustifica forme talora estreme di autolesionismo e negazione di sé, grazie al cilicio della fobia o dell'ossessione dell'Aids. Il test Hiv serve allora per controllare a breve-medio termine il nemico invisibile, oppure assurge a prova di coraggio impossibile da affrontare, rinviata sine die per l'angoscia intollerabile dell'attesa della sentenza definitiva, “troppo grande” la COSA per le proprie esigue (infantili) forze.

E dunque persino senza far nulla o quasi di (omo)sessuale si può restare vincolati al demone del sesso e dovergli tributare omaggi e sacrifici, votargli soprattutto la mente e il cuore.

Particolarmente interessanti appaiono i vissuti di morte collegati all'intimità fra maschi, perché è come se venisse vanificata l'operazione di erotizzazione difensiva che sottende i desideri e/o i comportamenti omosessuali di tanti uomini, svelando la trama di forme primitive e morbose di omosessualità nelle quali la verità del sesso non è l'attrazione bensì il rituale di controllo dell'aggressività, in una parola la guerra potenziale.

L'altro uomo è l'ombra oscura, non accettata o rifiutata, che ritorna col rimosso e incombe, schiaccia, vuole uccidere. E ancora, l'altro è ciò che si vorrebbe far fuori e di fatto si taglia fuori dalla vita affettiva e sessuale, l'altro omo che si punisce mediante l'autopunizione.

Rispetto ai sessodipendenti praticanti, boriosi e “coatti”, capaci di negare l'evidenza delle malattie veneree e delle malefatte in genere e pertanto distributori di sofferenze fisiche e psichiche, coloro che sperimentano l'Aidsfobia hanno il merito, non di poco conto, di patire in prima persona e di non diffondere infezioni, dilaniandosi nevroticamente in dilemmi simbolici sulla responsabilità dinanzi al male.

La simpatia umana va a loro, benché credano nella religione negativa dell'Aids e non vedano il bene che pure esiste nella sessualità e nell'amore.

Mattia Morretta (2006)