Attenzione e amore nelle relazioni di aiutoCorso formazione operatori Comunità Exodus, Milano, 1994
Il discorso sulla relazione con le persone in difficoltà non va posto in termini di tattica e di tecnica, cioè di ciò che nel dettaglio si può fare per gestire i problemi, bensì in termini di concezione dell'incontro con l'altro perché, a conti fatti, dipenderà da questo l'opportunità di un rapporto costruttivo. Comunicare dipende dalla nostra disponibilità ma anche dalla possibilità dell'altro di ricevere e recepire. Ricevere è un arte cui bisogna educarsi lungamente, tant'è che in genere ci si limita a “prendere”.
Altrettanto importante è distinguere tra attesa e aspettativa. L'aspettativa è sempre pretenziosa e si fonda sul bisogno che conduce alla predazione: percependo una mancanza in sé e una ricchezza o una “fortuna” nell'altro, si cerca di ottenere con le buone o con le cattive la soddisfazione del proprio bisogno. Porsi in attesa, invece, benché possa apparire un gesto più passivo rispetto all'aspettativa, è una condizione in cui si realizza una vigilanza diversa da quella comune, una vigilanza rilassata, grazie alla quale dalle cose che accadono (e ne accadono sempre tante intorno a noi e in noi) si impara a “guadagnare”.
Disimparare a cercare e imparare a trovare è un'altra delle scelte che in dati momenti della vita si impongono. Da un certo punto in poi, invece di continuare a cercare le cose nel mondo, occorre imparare a trovarle nella propria vita, dentro se stessi e nei rapporti interpersonali. Ciò significa superare l'idea della privazione, che porta a proiettare sempre altrove ciò di cui abbiamo bisogno o possiamo desiderare. Quando ci si muove sulla base della mancanza si sviluppa una concezione di sé come vuoti di cose positive e qualche volta anche come pieni di cose negative. Bisogna al contrario porsi nell'ottica di “trovare” nel presente ciò che conta; non tutto naturalmente, anche perché alcune (tante) cose non verranno mai trovate.
Nella giovinezza c'è un lungo periodo dedicato alla ricerca ( cercare e non trovare è per qualcuno anche un modo erotico o masochistico di vivere), ma viene il momento in cui è necessario trovare. La resistenza a tale mutamento è grande, perché comporta la rinuncia all'illusione dell'onnipotenza, passando dal piano della possibilità a quello della necessità.
In genere si rifiuta o si tende a procrastinare la coscienza della riduzione delle possibilità e dell'esistenza di limiti molto precisi: viviamo in una "prigione" biologica e psicologica, in un corpo che è dotato di determinate caratteristiche e invecchia naturalmente ( niente di biologico migliora nel tempo), e con una personalità provvista di talenti definiti e limitate qualità. Dentro tali limiti vanno rinvenute le risorse per una evoluzione, partendo da ciò che effettivamente si è e si possiede. Così, non bisogna desiderare la dottrina perfetta, bensì mirare se mai al perfezionamento di se stessi. Ciascuno dovrebbe poter lavorare al miglioramento delle capacità di espressione del proprio potenziale, realizzando così al massimo l'umanità di cui è portatore.
Il tipo di concezione dell'uomo e della vita risulta fondamentale. Si può fare l'apologia del benessere e della salute, escludendo o svalutando sofferenza malattia e morte, anche professando idee correlate a filosofie spiritualistiche che dovrebbero comportare attenzione alla persona nella sua interezza. Il modello culturale che mette in comunicazione mente e corpo in vista di una sintesi non modifica l'impostazione salutistica oggi prevalente, se non entra nel merito della concezione dell'essere umano e se non riesce a “contenere” le tematiche della mortalità e della sofferenza.
Ognuno ha il proprio modo di essere cosciente della vita e della morte, può usare il rimedio omeopatico o il farmaco in dosi massicce, la discriminante sarà cosa farà della vita e di quali significati la riempirà. Le terapie sono “secondarie”, sono stampelle che aiutano a sostenere un uomo nel cammino esistenziale; non devono diventare “primarie” e occupare il posto che spetta alla personalità dell'uomo malato, pretendendo la conferma di ipotesi e teorie più o meno totalizzanti. Solo se si possiede una concezione dell'umanità è possibile “trasmetterla”.
Alcune persone non hanno la possibilità di strutturare un linguaggio per affrontare ed elaborare tale tematica nella malattia. Parlarne è sempre molto importante perché inaugura un processo di "normalizzazione", di rassicurazione e oggettivazione. Il linguaggio aiuta, trattandosi della forma più elaborata di comunicazione umana; non la più profonda, ma la più “raffinata”.
Per molti, comunque, non si tratterà di usare parole esplicite sulla morte o sul senso della vita. La consapevolezza di ciò che si vive va oltre la coscienza e l'io razionale, riguarda l'intero essere. Sappiamo che tanti malati hanno compreso molto bene quel che stanno vivendo, anche se non saprebbero “dirlo” né specificare pensieri e sensazioni. La loro interezza di esseri viventi ha accesso a verità profonde che solo a fatica e limitatamente è possibile tradurre in parole.
Ciò giustifica l'impressione di “sacralità” che si prova spesso di fronte a una persona nell'ultimo periodo di vita: la sua presenza è un luogo di "rivelazioni" che può inquietare e mettere a disagio. Accade allora di sentirsi “piccoli” di fronte alla grandezza dell'esperienza che si sta realizzando nell'interiorità dell'altro.
Per mettersi in condizione di comprendere quel che vivono le persone in difficoltà è necessario assumere un transitorio pregiudizio positivo.
Transitorio perché in seguito va superato per assumere un nuovo atteggiamento; pregiudizio perché non si basa sulla conoscenza effettiva dell'altro e della sua situazione ma la precede, essendo fondato su una scelta intenzionale: decido di pensare “positivamente” alla condizione altrui.
Di solito il pregiudizio è negativo, nasce o si accompagna a presunte "opinioni" dispregiative e peggiorative. Difficilmente si sceglie il pregiudizio negativo, in quanto esso è frutto della razionalizzazione di sentimenti e proiezioni di contenuto sgradevole. Chi va incontro alla persona malata o disagiata, se vuol capire, deve intravedere del bene e del valore nell'esperienza dell'altro. È un'operazione di attribuzione di senso che si fa prima ancora di incontrare l'altro in carne ed ossa e prima di constatare quanto valore e senso l'altro sperimenti effettivamente.
Spesso infatti si verifica una totale assenza di significato, la povertà e il deserto di chi fugge lontano da sé in preda al panico. Tale operazione è a maggior ragione importante nel caso di una condizione quale quella dell'Aids stigmatizzata culturalmente come portatrice di una negatività eccezionale: un pozzo senza fondo di perdite, vergogna e umiliazione. Deve allora essere chiara l'opzione morale e culturale sull'Aids, la scelta di pensare in termini di valore e di senso.
Ciò vale comunque per tutte le malattie “inguaribili”, in cui molte delle norme valide nel regime del cosiddetto benessere vengono meno e occorre trasferirsi in una dimensione più profonda e significativa. Tutti ci poniamo, con maggiore o minore consapevolezza, interrogativi che riguardano il senso della vita, del dolore e della morte. A seconda delle esperienze di vita e degli incoraggiamenti o delle dissuasioni culturali, affrontiamo a diversi livelli la problematica esistenziale.
L'attuale ideologia sociale cerca di negare persino la realtà e l'importanza delle questioni esistenziali (valori, umanità, concezione della vita e della morte), distraendo le persone con mille lusinghe e promesse. Al di fuori dell' Occidente la lotta per la sopravvivenza fa della morte un'ovvietà, una presenza costante e ubiquitaria, come la fame, la sete, la sofferenza.
Crediamo che la dimensione esistenziale possa essere trascurata o ignorata grazie al superamento della battaglia per la sopravvivenza nell'ecosistema, come se di fatto fossimo i “padroni” del mondo. Ci sentiamo onnipotenti e confidiamo nella tecnologia per risolvere ogni difficoltà sul piano della conservazione (alimentazione, salute, natura sarebbero sotto controllo!!).
Pare perciò “antiquariato” scadente il riferimento al senso della vita, alla convivenza con il dolore morale e fisico, e pare logico spezzare il legame con il passato rifiutando la continuità storico-culturale con l'umanità che ci ha preceduto.
Il regime dominante del “benessere” conduce a pensare che l'uomo possa e debba soddisfare il maggior numero possibile di desideri, tra cui quelli dell'eterna giovinezza, dell'immortalità, dell'eliminazione del dispiacere. Si estremizzano perciò la ricerca del piacere e la fuga dal dolore. Nella malattia grave o inguaribile, quando la persona è forzata a fare i conti con una sofferenza inevitabile e a prefigurare la morte, lo scacco all'onnipotenza e al senso di invulnerabilità è totale e brutale. In tale condizione la dimensione esistenziale diventa assolutamente preminente, perché è nell'interesse della stessa persona sperimentare la profonda ferita sul registro dell'essenzialità abbandonando via via molti dei modelli concettuali superficiali dell'orgogliosa e rumorosa “salute”.
In caso contrario, se non ci si libera dalla zavorra, si perde l'unica opportunità di comprendere ed “elevare” la propria umanità. Una certa idea di salute non è più proponibile per chi sperimenta un handicap stabile o è minacciato dalla morte. Imparare a restare sani nella malattia diventa allora il compito prioritario: come mantenere pienezza umana, qualità di vita, consapevolezza e creatività.
Restare sul piano della normalità presunta dello standard salutistico comporta una gravissima deviazione dall'unica direzione necessaria al malato, quella degli elementi costitutivi ed universali della vita umana. Se il malato dissimula la propria sofferenza esistenziale, non rischia solo artificialità e patetica recitazione, ma vive di fatto fuori della sua vita.
Se il volontario si mantiene sul registro del benessere o della normalità, può forzare o costringere il malato sul registro della malattia assoluta. Egli ha la facoltà di scegliere di interrogarsi sul dolore e sul limite, poiché non ne è “schiacciato” o non vi è costretto, almeno nel presente. Pur non essendo del tutto vero, egli può ragionare in termini di libertà e agibilità esistenziale. Per il malato la libertà è compromessa e messa in discussione dalle fondamenta, la necessità sostituisce la possibilità di essere.
Quando la vita diventa “malata”, la prigione esistenziale della finitezza acquista tutta la concretezza granitica della realtà. E' naturale che la persona malata reagisca, recalcitri, opponga una strenua resistenza, specie se non aveva mai riflettuto in precedenza sulle problematiche esistenziali. La vita costa tutti i giorni enormemente, ma alcuni si collocano a grande distanza dal substrato reale abitando nelle comode residenze di una normalità e di una salute idealizzate.
Più in alto si è saliti in questa fantasia di onnipotenza e gratificazione, più male ci si fa precipitando. È obbligatoria una modificazione sostanziale dell'atteggiamento esistenziale per identificare aspetti positivi nella condizione del malato inguaribile, di chi deve garantirsi ogni giorno la vita e lottare con il dolore, rendendo vivibile ciò che agli altri appare impossibile.
Quando gli uomini si pongono domande sulla sofferenza, sulla morte, sulla giustizia e sulla pietà, si umanizzano, fanno cioè di se stessi degli esseri umani a pieno titolo. Nella dimensione esistenziale la vita viene ridotta per certi versi al limite, all'essenza. L'essenzialità non ci basta nella vita ordinaria, poiché siamo coinvolti in un mondo ad altissimo livello di complicazione che la fa apparire inutile e misera, quasi un rassegnarsi a vivere al di sotto delle proprie possibilità e aspirazioni.
Nell'Occidente viviamo secondo un modello articolato su miriadi di bisogni da soddisfare e non possiamo pensare in termini di “pane quotidiano”, di costante minaccia da parte dell'ambiente o di precarietà continua della vita. Va notato, tuttavia, che il vissuto di instabilità è molto aumentato negli ultimi decenni nelle società opulente, a causa della destrutturazione dei modelli di riferimento culturale precedenti e dell'aumento della forbice tra la vita reale e la vita rappresentata.
Scegliere di interrogarsi sulla concezione soggettiva della malattia e della morte è pertanto una condizione necessaria, benché non sufficiente, per operare nell'ambito della solidarietà. Certo, la sofferenza non si affronta tutta in una volta e una volta per tutte, ma occorre diventare consapevoli delle proprie dinamiche di confronto scontro fuga con il problema del limite e del dolore esistenziale. Si tratta quindi di fare i conti con gli stessi elementi di realtà con cui ha a che fare il malato, che lo si voglia o no. Il volontario deve poter percepire tali tematiche, porsi consapevolmente gli interrogativi che l'altro vive come concrete esperienze di dubbio e incertezza.
A partire dal relativo vantaggio dello stato di salute e di libertà, egli opera la scelta del confronto su registro esistenziale, collocandosi così su un piano di pariteticità con il malato. L'operazione riguardo all'altro deve avvenire comunque, anche quando lo stesso volontario è Hiv positivo. Quali domande pervadono l'esperienza della persona malata e le competono, anche se non traspaiono e non sembrano attive?!
Spesso attraverso la mia riflessione l'altro guadagnerà elementi utili all'elaborazione. Mi interrogo in un modo che non è ancora praticabile per l'altro, e così facendo garantisco che alla realtà venga comunque dedicato un pensiero costruttivo. In principio o per un dato periodo di tempo, può essere che sia il volontario a pensare da solo intenzionalmente alla morte e alla convivenza nella malattia; egli fa transitoriamente tale “lavoro” anche per l'altro perché è necessaria un'opera di mediazione.
Il malato è alle prese con tali mutamenti e urgenze, che rischia di sottrarsi al compito per lui fondamentale del percorso esistenziale. Per molto tempo andiamo avanti convinti che il corpo sia a nostra disposizione, un nostro strumento; prima o poi si impara che è vero il contrario: siamo noi al sevizio del corpo, perché la volontà non basta più e non ci è possibile rifiutare le sue prescrizioni. Esso detta o condiziona le nostre scelte, la nostra possibilità di agire e persino di pensare; “contro” il corpo non è possibile andare e, se non lo si asseconda o non si trova il modo di collaborare, ci attendono solo frustrazioni e fallimenti.
In parallelo al lavoro che il malato compie su di sé e dentro il suo corpo, il volontario o il congiunto dovrebbe riflettere sulle tematiche costitutive della condizione. Applicandosi a dare valore e senso all'esperienza di malattia, chi sta accanto al malato usa nel miglior modo possibile il tempo, incrementando le opportunità di elaborazione che i malati stessi possiedono benché in misura diversa l'uno dall'altro. Se non ci si colloca nella dimensione esistenziale, non è possibile offrire aiuto a livello esistenziale. E' infatti possibile aiutare sul piano materiale e persino psicologico senza quella "reciprocità" sul piano esistenziale, che sola consente una crescita della relazione nel senso della umanizzazione.
Vi sono molte persone malate qualitativamente più dotate dal punto di vista umano di coloro che le soccorrono. Dopo aver recuperato almeno in parte sicurezza e fiducia in se stesse, tali persone possono intraprendere il lavoro di elaborazione esistenziale senza attendere che lo facciano i congiunti. In effetti, se ci si affida alla riflessione altrui sul dolore e sulla morte e si conta su un aiuto in termini spirituali, si rischia sovente di aspettare invano e di perder così tempo prezioso.
Tutti i soggetti portatori di diversità o svantaggi di qualsiasi tipo dovrebbero comprendere che è nel loro interesse applicarsi per proprio conto alla riflessione su ciò che caratterizza oggettivamente e soggettivamente la loro condizione. Altrimenti si è costretti a dipendere dalla disponibilità e dalla capacità degli altri a farsene carico, con delusioni e umiliazioni assicurate. L'elaborazione dei contenuti esistenziali è sempre “in corso” e non giunge mai propriamente a termine. La stessa convivenza non è mai realizzabile completamente, se intesa come coscienza lucida e razionale, continuativa. I tentativi di fuga, le deviazioni, la negazione sono fisiologici e necessari; quel che più conta è la scelta di fondo di procedere nella direzione del far fronte alla realtà della vita.
Non si può credere che una società orientata verso il rifiuto della malattia e del dolore possa garantire una positiva "ospitalità" alle persone sofferenti e malate. Sia nel macro che nel microcosmo vengono predisposti interventi di confinamento e separazione. Così pure, il singolo individuo che evita il confronto personale con i limiti e la sofferenza, nel rapporto con chi è portatore di disagio scivola inevitabilmente nella proiezione sull'altro di tutta la negatività espulsa da se stesso.
Non posso operare per la convivenza nella relazione d'aiuto, se non mi impegno in una fattiva convivenza dentro me stesso tra gli aspetti contrastanti della personalità e della realtà. Si tratta di un tentativo sempre mal riuscito, di un esperimento non finito; tuttavia è l'unico modo profondamente onesto di intrattenere relazioni con persone svantaggiate o malate costrette al confronto diretto con la finitezza. Gli errori e le risposte sbagliate sono inevitabili, anche perché l'incertezza spinge a un recupero brutale del controllo sulla situazione tramite la gestione dei problemi. Non è vero che le domande richiedano risposte e che la coscienza della morte vada espressa in base a copioni prestabiliti.
Se si fa l'operazione di immedesimazione consapevole, si coglie sempre il momento in cui è possibile comunicare su argomenti cruciali. Deve naturalmente esserci disponibilità a percepire e reperire i messaggi spostando più in là il limite dell'elaborazione. Se si fa spazio, emerge un discorso sul senso o non-senso della vita, sulle rappresentazioni della morte e sull'importanza della memoria storica. Può darsi che la persona non riesca a conciliare salute e malattia, vita e morte, gioia e dolore; ma è già molto se si incammina verso una prospettiva di sintesi e unità.
Tutta la relazione tra volontario (o congiunto) e malato si basa sulla gradazione della distanza e sul rimescolamento continuo tra superficie e profondità. Le persone malate che si sono identificate troppo con l'aspetto della privazione e del limite vanno aiutate a portare a galla gli aspetti di salute inespressi e depositati sul fondo. Alcune persone con Hiv presentano una facciata di salute e disinvoltura, come se non fosse accaduto nulla. Si tratta almeno in parte di un controsenso che rischia di nuocere al diretto interessato. Nella loro profondità giace ridotta al silenzio la malattia, intesa come problematica più che come minaccia all'integrità fisica. In tal caso il rimescolamento deve consentire l'emergere dei contenuti connessi alla malattia utili per predisporre un equipaggiamento più adeguato all'impresa.
Il rimescolamento riguarda anche chi è accanto. Se porto a galla la malattia e la salute dell'altro, devo essere consapevole della coesistenza delle medesime aree dentro di me. Anch'io convivo con malattia e salute, bene e male, vita e morte. Se non “possiedo”, cioè non riconosco, questi due poli si verifica uno squilibrio rovinoso: siamo tutte e due solo “sani” e fingiamo di poter continuare ad esserlo; oppure siamo tutti e due solo malati e possiamo soltanto aggravare la depressione e il fatalismo.
Di solito, poi, il volontario estremizza la propria salute e di converso la malattia dell'altro: io sono sano e ti porto la mia salute, io ho tutto e tu non hai niente, io sono pieno e tu sei vuoto, io sono in essenza la vita e tu in essenza la morte. Una persona in buone condizioni di salute in effetti simboleggia la pienezza della vita, mentre il malato simboleggia l'incombenza della morte. Tuttavia, ciascuno ha in sé il seme della morte e una quota di sofferenza in dotazione, come pure un patrimonio di vitalità e creatività.
Poiché di una persona con Aids si ha l'idea che sia “viva per la morte e morta per la vita” (come il Mattia Pascal di Pirandello), si tratta di tentare un riequilibrio tra i due aspetti e i due poli del positivo e del negativo sia nel malato che in chi gli è accanto.
Ritengo rappresenti una grande opportunità possedere un interlocutore che non fugge e non dà per forza risposte nel confronto sul piano esistenziale.
Dà grande sollievo avere a disposizione qualcuno che consenta l'espressione dello sconforto e della disperazione senza sforzarsi di risolvere il problema ma tentando di testimoniare la possibilità del contenimento. Trovare uno specchio chiaro non è facile, poiché spesso l'altro (volontario o congiunto) vi fa balenare la propria immagine oppure offusca quella del malato per timore che questi ne sia spaventato. È importante invece consentire al malato un rispecchiamento che restituisca anche il valore della sua esperienza. Ciò è possibile solo a condizione che il volontario metta a punto dentro di sé una strategia di convivenza e di riconoscimento dei limiti.
Non è necessario possedere risposte ai quesiti sulla vita e sulla morte; il solo fatto di porsi tali quesiti aiuta a stare in relazione con la persona malata sia in quanto volontario che in quanto parente o partner. Molti fanno questa operazione in maniera inconsapevole. Diventa però obbligatorio pensarci quando c'è una scelta di volontariato o di professioni che implicano il rapporto con persone malate. È necessario cioè passare dal livello intuitivo ed emozionale a quello intenzionale ed affettivo.
Si fanno costantemente molti errori, tante sono le approssimazioni, in proporzione diretta all'esperienza e alla coscienza personale. Infatti noi incoraggiamo e consentiamo che gli altri si pongano domande in misura della quantità e della qualità di quelle che noi stessi ci poniamo. Perdiamo il controllo della situazione se l'altro si fa più domande, o domande diverse. In verità, la sfida della comprensione e della convivenza, dovrebbe rappresentare un vantaggio ed un arricchimento. Si apprendono sempre molte cose osservando gli esperimenti di convivenza con il limite.
I gesti, le parole, i segnali di cui si è stati testimoni rimangono come patrimonio cui attingere nel momento in cui toccherà a noi fare i conti con la malattia e la morte imminente. Proprio come, del resto, ci serviamo dell'esperienza depositata nel nostro inconscio collettivo sulla base del lavoro compiuto dall'umanità a partire dagli albori della vita. L'immedesimazione attiva è un operazione che va aggiustata ogni volta sull'altro e sui limiti di ciò che si può offrire. Per lo più si tratta di accontentarsi di instaurare un rapporto umano che riesca almeno a trasmettere vicinanza, pur in modo parziale e insoddisfacente: ci siamo incontrati su questa terra come uomini anche se abbiamo potuto fare ben poco l'uno per l'altro.
Percepire l'esistenza attorno a noi e con noi di altri esseri umani è in fondo una delle esperienze più intense e importanti che sia dato provare. Sappiamo allora che non siamo del tutto soli e possiamo condividere la consapevolezza di essere vivi. Ritirare le proprie proiezioni e i propri fantasmi e ridimensionare le richieste di appartenenza, sono due obiettivi che il volontario e il congiunto debbono porsi. Occorre riflettere sul senso di “proprietà” nei confronti del malato e sul timore della destabilizzazione. Nel tempo le aspettative di “fusione” vanno messe in discussione e sorvegliate attentamente, per poter spostare la relazione dal piano dell'avere a quello dell'essere. Nell'approssimarsi della morte, il regalo più utile che gli altri possono farci è lasciarsi andare. Il malato grave ha bisogno di poche cose, elementari ed essenziali. Dà da anche meno cose ma solo sul piano materiale e dal punto di vista della quantità dei punti di scambio. Spesso la persona malata si trova sovraccaricata della solitudine e della privazione altrui, proprio mentre giustamente ha bisogno di essere al centro della realtà. Sarebbe molto importante concepire tutti i rapporti come “a termine” perché la separazione è sempre implicita nel gesto di legarsi a qualcuno. Converrebbe orientarsi verso una riduzione del desiderio di appropriazione che porta a concepire l'altro come una sorta di banca da cui ci si attende la restituzione dell'affetto speso con tanto di interessi. La scelta più saggia è di non fondare le relazioni sul bisogno e concepire l'altro solo come un'occasione di crescita. Il gioco della distanza è centrale. Per i parenti e per i volontari la dinamica è violenta e intensissima, anche perché si svolge in gran parte a livello in-consapevole. Per rendere più costruttiva la relazione è comunque utile diventare coscienti del proprio ruolo e dei propri sentimenti, anche quando si è in rapporto di parentela con il malato. Nel caso del volontariato l'investimento privato è da ritenere pericoloso proprio a causa del riduzionismo cui obbligano sempre i bisogni. È facile per chi lavora da tempo nell'ambito dell'Aids pensare che esista solo l'Aids, finché alla fine non c'è più scelta perché quel mondo diventa il mondo. Dopo un po' il pregiudizio deve lasciare il posto al giudizio. Forse può diventare necessario allontanarsi, fare altre esperienze, evolvere. Chi non può dire no, non può neppure dire sì: è una regola che vale sempre, ma soprattutto in amore, e il volontariato è di fatto una forma di amore. Mattia Morretta (7 Aprile 1994)