L’Aids e l’uomo contemporaneo, 1987
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Considerazioni sulla condizione di sieropositività

La sieropositività comporta una grave frustrazione per la realizzazione dell’individuo su tutti i piani: personale, affettivo, sessuale e sociale. In quanto tale induce reazioni di tipo aggressivo, regressivo o costruttivo, a seconda del modo con cui l’individuo percepisce e mentalizza la frustrazione, oltre che delle caratteristiche di personalità e della qualità della vita di relazione.

Benché la risposta aggressiva sia frequente, prendendo forma via via e trasformandosi in circostanze fortunate in atteggiamento costruttivo, senza dubbio la modalità regressiva è universalmente adottata all’inizio e in molti momenti successivi, potendo costituire per alcuni una modalità di difesa dominante o preferenziale.

Il riemergere di problemi di identità, l’insicurezza trascinata da tempi remoti e la difficoltà di essere se stessi in un contesto che pratica spudoratamente la discriminazione, determinati modelli culturali (la “passività” quale tratto caratteristico dei gay), facilitano la regressione di fronte ad una situazione che di per sé è ben più di un semplice ostacolo.

L’indeterminatezza di ciò contro cui occorrerebbe combattere fa apparire vana e fallimentare la scelta del contrattacco. Bisogna essere particolarmente forti e “incoscienti” per fidarsi di se stessi e delle possibilità di sconfiggere qualcosa di cui non si intravede che l’ombra gigantesca.

La minaccia all’integrità personale induce un meccanismo difensivo improntato al ritorno a fasi antecedenti di sviluppo, perché è giocoforza corazzarsi, portando ad un “incapsulamento” della persona, che si ripiega e rifugge dalla realtà. La regressione si configura anche come “de-differenziazione” della personalità con impoverimento del funzionamento psichico e una maggiore facilità di passaggio da una dimensione all’altra, dal reale all’irreale.

Il soggetto tende a risolvere il problema a livello fantastico per sfuggire alla frustrazione cocente ed ineludibile, sognando di essere sano e amato. Il comportamento si fa più primitivo e meno articolato, i mezzi usati per comunicare e confrontarsi con gli altri meno elaborati, il linguaggio si fa più povero e ripetitivo, stereotipato.

Le capacità intellettive ed emotive conseguite con la maturità paiono indisponibili e vengono sostituite da attitudini mentali ed emozionali più arcaiche e schematiche. La presenza di un conflitto avvertito come irrisolvibile porta ad una “fuga dal campo” con la rinuncia a porre in atto strumenti pur acquisiti in precedenza per fronteggiare stress e difficoltà di vario tipo.

Una fase di chiusura e ripiegamento può svolgere una funzione positiva quando permette di valutare criticamente la situazione grazie ad un minore coinvolgimento. Diversi fattori però rendono più complicata l’operazione, perché l’isolamento è “forzato” in buona parte, in relazione al nodo del rifiuto nei confronti della sieropositività a livello collettivo. Si impone la sensazione della perdita dei molteplici punti di contatto con il mondo esterno, recisi i fili che collegano agli altri e alla specie, inutile tendere le braccia, nessuno o quasi risponderà al richiamo, c si sente come inchiodati in un luogo che non solo è difficile e faticoso da raggiungere, ma non permette un movimento autonomo verso l’esterno.

La disperazione è una sorta di lente d’ingrandimento: i problemi, le imperfezioni e i difetti risaltano sotto gli occhi in tutta la loro evidenza, il paesaggio dell’esistenza può apparire una valle di lacrime ove cresca solo la pianta della sofferenza. La lente tuttavia ingrandendo deforma e la fissità dello sguardo altera la visione. Dietro le persiane della propria casa fredda ed oscura il mondo si mostra in tutta la sua crudeltà o indifferenza, oppure l’invidia corrode e paralizza il moto rendendo insopportabili la leggerezza, i sorrisi, l’accalorarsi e pure i dolori altrui.

Per chi è incatenato al limite il tempo si è fermato e l’orologio segna un’ora sbagliata, il divenire è impossibile, può accadere soltanto la fine, dopo una china discendente una corsa irreversibile. La certezza emotiva di tale convinzione la rende impermeabile alla critica e al ragionamento. Bisognerà attendere il disgelo delle energie interiori per veder tornare a scorrere l’acqua della fiducia nelle opportunità di vivere.

Concentrandosi sui dati di laboratorio, le notizie di stampa, le percentuali statistiche, l’individuo elabora l’idea di essere senza scampo di fronte alla morte, benché una speranza cieca e indistinta si mescoli spesso alla disperazione assoluta. L’istinto di sopravvivenza talora si rivela controproducente portando a chiudere gli occhi in attesa dell’uscita passiva dal tunnel. Una notevole impenetrabilità ai consigli e all’incoraggiamento è la norma, si capisce quanto viene detto o fatto dagli altri, ma non si riesce a “sentire”, perché l’interessato è convinto che solo il “disgraziato” conosce la verità.

Anche quando si chiede aiuto, si allungano le braccia ma si chiudono le mani, la domanda di sostegno è più formale che sostanziale, il che può rivelarsi rischioso per il futuro rendendo più difficile riannodare i fili della vita di relazione. Si è ritirati nell’entroterra della personalità e le voci altrui giungono ovattate, il supporto è un fragile stelo che non può fungere da bastone, la corda che il soccorritore lancia a lungo non verrà afferrato dal disperso, occorrerà rilanciarla più volte finché non si sentirà tirare all’altro capo.

La persona pensa che, non esistendo una soluzione certa e definitiva, non valga la pena e sia paradossale mettersi a lavorare per ricostruire una casa e dare un senso alla vita. Un pensiero che sta spesso dietro l’attesa del vaccino o di farmaci efficaci, che consentano di tornare a “prima”, come se non fosse accaduto nulla. Ritenendo di non potersi difendere dalla realtà frustrante e di non avere possibilità di controllo rinuncia a mettere in atto difese attive e costruttive, il che comporta la ritorsione dell’aggressività verso se stessi, fino alla dis-gregazione autodistruttiva.

Una tendenza autolesiva che veicola una richiesta di aiuto secondo le modalità della dipendenza infantile, sicché pure il tentativo di morire può servire a richiamare l’attenzione su di sé con mezzi poco elaborati nella speranza di garantirsi una fonte di dipendenza.

All’inizio domina una sensazione di shock e sbandamento, che vanifica i contenuti del colloqui con i sanitari. Ci si concentra sul termine “sieropositività” che sembra condensare tutta la storia del soggetto, la personalità scompare come un sol che si trasformi improvvisamente in gel. Poi inizia una difficile digestione con alcuni aspetti di negazione utili alla riformulazione di nuovi progetti. Non esistono stadi in successione perché le fasi si mescolano e sono amalgamate, benché alcuni fenomeno compaiano prima ed altri dopo.

La situazione di base può essere descritta come uno stato continuativo di stress, con il dominio dell’angoscia per i cambiamenti negativi attesi nella vita sessuale e relazionale, nel corpo e nell’aspetto esteriore. L’incertezza è la condizione più drammatica, tanto che molti provano “sollievo” per una diagnosi di Aids, in un primo momento almeno. Scrive Emily Dickinson: "L’incertezza è più ostile della morte. / La morte anche se vasta / È soltanto la morte e non può crescere. / All’incertezza invece non c’è limite, / Perisce per risorgere / E morire di nuovo, / È l’unione del nulla / Con l’immortalità."

La persona è paralizzata perché non sa se deve muoversi e in quale direzione, se ha senso fare le cose che faceva prima perché tutto appare sotto un’ombra scura. Tuttavia, possediamo tutti una grande capacità naturale di adattamento, che il più delle volte è adeguamento passivo senza miglioramento di abilità o qualità della vita.
Nonostante tutto si torna a vivere, a meno che i conflitti o i deficit preesistenti non prevalgano. Di solito si torna alla situazione antecedente, minimizzando la portata dell’evento, quasi fosse stato solo un brutto sogno.

La consapevolezza di sé è peso enorme da portare, di norma abbiamo una conoscenza inconscia del corpo e dei vissuti emozionali, mentre in questo caso la coscienza è forzata e si pone l’interrogativo: “cosa faccio di me?”. La luce è stata accesa d’improvviso nella stanza, con effetto abbagliante e disorientante. Oppure si guarda il fisso il fondo del pozzo senza riuscire a scorgerlo, allora ci si gira intorno (rimuginando) oppure si è tentati di buttarsi nel vuoto, come nel racconto Il demone della perversità di Edgar Allan Poe, che parla della “passione impaziente per la quale uno, pur rabbrividendo sull’orlo del precipizio, medita in qualche modo di buttarsi”.

Cercando una spiegazione (Perché io?) si impone la percezione di una profonda ingiustizia, specie per chi non ha avuto una vita sessuale promiscua. Tutto il futuro è messo in discussione non tanto dal punto di vista pratico, quanto da quello emozionale e cognitivo, e magari l’individuo non aveva mai avuto prima “un futuro”, cioè non aveva pensato al proprio futuro costruttivamente.

Altro elemento importante è l’attitudine ipocondriaca, che non dipende esclusivamente da esagerazioni psicosomatiche, perché c’è un abbassamento della soglia di percezione degli stimoli somatici, perché la consapevolezza corporea è aumentata con particolare evidenza dei segnali di pericolo. Sapere di non potersi fidare del corpo e che qualcosa al suo interno lavora contro (il virus che nell’officina cellulare opera per distruggere) è un’esperienza “negativa” alla lettera.

Allora il presente è un tempo di vecchiaia in persone con trent’anni in media, con un’impostazione ancora narcisistica dell’identificazione, quindi intolleranza alle frustrazioni e alla vulnerabilità del fisico.

Mattia Morretta (1988)