Sessuomania
18 Aprile 2015
Vita di relazione nell’Aids
2 Maggio 2015

La dimensione psicologica dell’AIDS
Università degli Studi di Milano, Scuola di Specializzazione in Psichiatria, 1987

Le persone con sindromi correlate all’Aids sono soggette a sperimentare, secondo alcuni ricercatori, un livello di angoscia ancor più elevato di quelle con diagnosi esplicita.

Esistendo una certa discrezionalità nei criteri, ci si basa su protocolli che possono variano da paese a paese. Molti sintomi sono gli stessi contemplati per l’Aids, ma mancano le caratteristiche necessarie per parlare di malattia conclamata.

Troppo poco per ridimensionare il problema e abbastanza, tuttavia, per aggiungere un elemento di conflitto estremamente disturbante: l’incertezza.

L’ambiguità cui i pazienti devono fare i conti è in grado di indurre reazioni psicologiche molto intense e drammatiche. Per altro, essi trovano difficoltà ad entrare in programmi di supporto e in piani terapeutici, o a usufruire delle pratiche di invalidità, in quanto questi servizi sono destinati solo ai pazienti con Aids conclamata.

Sicché, pur non essendo “sani”, non sono “abbastanza” malati e devono attendere di esser colpiti da un’ infezione o un tumore più gravi per vedersi prestare cure e assistenza.
Ciò a dispetto del loro desiderio di essere “curati” in qualunque modo, benché poi di fronte all’ipotesi di trattamenti sperimentali molti lamentino di venir considerati utili solo come cavie.

Tali soggetti sono sottoposti allo stress quotidiano di essere o sentirsi “malati”. In alcuni giorni l’individuo non si sente bene e fa quasi fatica ad uscire dal letto, in altri invece può sentirsi del tutto a posto. L’alternanza di sensazioni di malessere e benessere è di per sé disturbante.

Nei periodi “buoni” la tentazione di dimenticare prevale sull’intenzione di prepararsi per affrontare meglio l’esperienza successiva di disagio.

In ogni caso, è frammentato il processo di adattamento alla situazione e di elaborazione dei vissuti. L’apprensione circa il domani, la minacciosa incognita dei giorni futuri, il pessimismo, lavorano tutti contro la salute psicofisica della persona.

Il fantasma dell’Aids può giungere ad occupare la gran parte dei pensieri e delle attività. Ed è facile, come in ogni condizione fisica grave o ritenuta tale, che la malattia diventi il modo stesso di vivere.

Se il mondo crolla, l’esistenza è sconvolta, non c’è una sola via d’uscita, allora non resta che abbracciare la causa della malattia e diventare un malato di professione, perché ciò garantisce almeno un ruolo definito.

L’alternativa è quella di provare a fingere che sia tutto un brutto sogno. Non comprendendo cosa sta accadendo al suo corpo e non potendo prevedere cosa accadrà domani, la persona si trova improvvisamente sprovvista di una base d’appoggio.

La strada percorsa fino a poco tempo prima è diventata ad un tratto un terreno di sabbie mobili, dove non restano che appigli fittizi o, come per il barone Munchhausen, solo i propri capelli cui aggrapparsi.

La prospettiva di un futuro, ricco o povero di speranze che fosse, si è trasformata in una funesta profezia. Ciò che è certo, è che non mancherà il dolore. Ciò che si sa, è che tante piccole malattie o disturbi fisici ricorrenti aspettano di manifestarsi, dietro gli angoli dei mesi a venire.

La sensazione più vivida è quella di sentirsi tagliati fuori, recisi dalla precedente vita con un colpo d’ascia, netto, preciso e irrimediabile. Il minimo che può capitare è di temere di perder la testa.

L’imprecisa, vaga definizione della sindrome rende difficile anche l’adozione di un atteggiamento propositivo, volto al conseguimento di informazioni corrette e all’approfondimento delle possibilità di intervento a disposizione del soggetto.
Il nemico da fronteggiare non è precisamente identificabile e i mezzi per combatterlo paiono inadeguati o paradossali ("star bene per poter star bene).

La scoperta di essere malato (anche se non “condannato”), l’ipoteca sul futuro e la mancanza di un piano preciso di trattamento, combinando i loro effetti, rendono difficile sviluppare un quadro chiaro della situazione. La confusione, se non è contrastata da un intervento attivo o di supporto dall’esterno, impedisce all’individuo di avere a propria disposizione tutte le facoltà necessarie a prendere importanti decisioni sul trattamento, sui progetti a breve e medio termine, sulla vita di relazione.

I metodi usati in passato per combattere lo stress in modo organico sembrano non appartenere al proprio patrimonio di conoscenze e quindi risultano indisponibili per una utilizzazione nell’attualità. L’impressione è di non avere scampo.

Alcuni cercano di sminuire l’importanza della diagnosi o addirittura pretendono che sia falsa o inesistente. È il caso della negazione, che può essere ancor più disturbante della confusione perché può portare a rifiutare di prendere in considerazione programmi e consigli appropriati.

Lo spavento indotto dalla diagnosi fa trovare attraente la strada della negazione: non è accaduto niente, tutto può continuare come prima. Pur comprensibile e talvolta ragionevole, ciò rischia di menomare la capacità di fare scelte determinanti per la sua salute, anche psichica.

Per affrontare gli innumerevoli piccoli problemi l’individuo deve infatti essere in possesso delle sue migliori energie e doti, nonché saperne fare uso nella pratica.

Le procedure per i controlli clinici, gli esami di laboratorio, le terapie per gli stati infettivi, i periodi di ricovero, e tutto il resto sono di per sé occasioni sempre rinnovate di stress.
Se si tiene conto anche delle processioni di consulti e “interrogatori”, si comprende come possa imporsi la sensazione di una invasione della propria vita privata insieme all’impressione di essere inchiodati da troppe necessità. Nel complesso, la percezione di fondo è quella di una perdita d’identità.

Una ulteriore fonte di stress è il problema del rivelare o tacere la propria diagnosi. Conservare il segreto in casa, con i familiari, con gli amici, sul luogo di lavoro, incrementa la tensione e fa sentire inautentici, sempre con un peso sulla coscienza, una macchia nell’anima.

Parlare della propria condizione espone al pericolo di amare frustrazioni anche da parte di persone molto intime. Le reazioni di paura ed evitamento da parte di alcuni parenti o amici influenzano negativamente l’autostima e mettono in discussione il valore globale dell’individuo, che è portato a dare più peso a questi episodi sgradevoli che non alle risposte positive di altri amici e familiari.

La visione dello sconcerto prodotto nelle persone care addolora e mortifica: tutt’intorno c’è gente che si accalora, che non sa cosa fare o che dire, che passa dall’indifferenza alla protettività più soffocante. Di fronte al lavorio dei “buoni” compagni, gli sfoghi di rabbia e le manifestazioni di insofferenza, pur inevitabili, preparano legna per il fuoco dei sensi di colpa tenuto vivo dai ripensamenti personali.

Quando è affetto da qualche infezione o disturbo fisico debilitante, il soggetto è costretto pure a sopportare lo spettacolo della propria dipendenza materiale degli altri. Non essere autosufficienti in un’età giovane o relativamente tale è assai penoso, specie se già magari si pensava con orrore alla perdita di autonomia nella vecchiaia.

Altrettanto penosa è la consapevolezza di un declino fisico progressivo e inarrestabile, a volte subdolo e a volte eclatante.
Riconoscere il corpo come proprio, nel momento in cui pare preso in un vortice di reali o presunte malattie, è un’impresa incredibilmente faticosa e umiliante.

Tutti sanno che il corpo è destinato a morire passando attraverso la decadenza, ma sperimentarlo in quel modo e in così breve tempo è qualcosa di completamente diverso e doloroso.

Mattia Morretta (1987)