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Gli effetti collaterali del benessere

"Amico mio, questo secolo è un secolo di ragazzi, e i pochissimi uomini che rimangono, si debbono andare a nascondere per vergogna, come quello che camminava diritto in paese di zoppi.
E questi buoni ragazzi vogliono fare in ogni cosa quello che negli altri tempi hanno fatto gli uomini, e farlo appunto da ragazzi, così a un tratto, senza altre fatiche preparatorie.
Anzi vogliono che il grado al quale è pervenuta la civiltà, e che l'indole del tempo presente e futuro, assolvano essi e i loro successori in perpetuo da ogni necessità di sudori e fatiche lunghe per divenire atti alle cose..."
(Giacomo Leopardi, Dialogo di Tristano e di un amico, 1832, Operette morali)

La redistribuzione del benessere e l'aumento del potere di auto-definzione su vasta scala nei paesi occidentali si accompagnano alla diffusione di disagi e disturbi specifici, che acquistano quasi i caratteri di status symbol, divenendo tipici della ricchezza e del salutismo.

Nel disordine culturale imperante e tra le maglie sempre meno strette della rete sociale prosperano così narcisismo ed individualismo esasperati, dipendenze e de-responsabilizzazioni autorizzate, nonché sogni ad occhi aperti che pretendono di negare o sostituire la realtà.
Il mondo, reso specchio delle brame di uomini senza qualità, rischia di trasmigrare nel regno della virtualità.

C'è modo di conciliare sviluppo, mercato e integrità della vita umana? C'è spazio nella società di massa per una cultura della salute consapevole dei limiti esistenziali?

Nel nostro contesto il benessere viene dato per scontato, nel senso che viene fatto corrispondere automaticamente ad alcuni comportamenti e standard di vita, a determinate condizioni materiali e psicologiche o persino spirituali.
L'ovvietà con cui vi si fa riferimento non comporta solo una perdita di significato del termine, ma finisce anche per disincentivare la riflessione su quello che si sta “cercando”.

Le persone inseguono in maniera idealistica il miraggio della salute, arrivando a considerarla una meta a se stante. Il buono stato dell'organismo e la buona relazione dell'individuo col proprio corpo dovrebbero essere funzionali alla vita, servire per vivere meglio, quindi dovrebbe essere uno strumento e non un fine.

Oggi, invece, la salute è un fine in sé, è diventata la normalità ideale, cui si contrappone l'anormalità della malattia; ogni altra diversità scompare nell'occidente di fronte allo status culturale della malattia come diversità radicale.

Siamo tutti incamminati in fila nella speranza di possedere questo bene prezioso, che non sappiamo neanche definire, ma sul quale gli esperti non ci risparmiano ogni giorno informazioni dettagliate, le quali appaiono simili a torture e punizioni, raccomandazioni e allarmi.

Al contrario, il benessere va rimesso in discussione e usato comunque a giuste dosi, alla stregua di un farmaco da assumere in maniera consona alla persona e ai suoi bisogni.

Ed è importante discuterne sia in privato che in pubblico, benché di pubblico (nel senso di res publica) non vi sia pressoché più nulla, essendo rare le esperienze veramente sociali. I più hanno in mente uno schema in proposito e si limitano a trovare conferme di quel che già sanno da parte dei vari tecnici del settore.

Molta della scientificità propagandata attualmente è pseudo-scienza, anzi di fatto una forma di religione. La maggior parte degli occidentali ha ritirato la proiezione di onnipotenza in precedenza operata su Dio e l'ha reinvestita su idoli scientifici quali entità divine.

Ciascuno si considera un dio e venera quelle divinità che mediano la conquista dell'onnipotenza, della perfezione fisica, della bellezza e della giovinezza eterne.
L'atteggiamento verso il mondo scientifico-tecnologico è allora di tipo fideistico e le domande/risposte puntano sull'emozionalità e sulla soddisfazione di sogni che accompagnano dalla notte dei tempi l'umanità.

Non c'è quasi niente di nuovo sotto il sole perché, come ha scritto Jorge Luis Borges, “tutto accade per la prima volta ma in modo eterno”; i tratti universali e le aspettative degli uomini si riproducono incessantemente.

Di differente, però, c'è che viviamo in una società di massa, cosa di cui tendiamo a dimenticarci per la dissimulazione della massificazione con l'individualismo. Ciò comporta gravi problemi di organizzazione a lungo termine e spiega le tante ipotesi catastrofiche sul futuro, riguardo al degrado ambientale e antropologico.

Non v'è dubbio che il progresso può mascherare lo svilimento della condizione umana e che dietro il raggiungimento di grandi obiettivi possa nascondersi il decadimento di alcune forme di pensiero e creatività culturale. Ogni epoca è “oscura” quando si usa un approccio critico, il che non significa essere pessimisti bensì restare capaci di rendersi conto degli elementi di negatività presenti nelle aspirazioni umane.

Perciò bisognerebbe chiedersi: cos'è la salute agognata dai contemporanei?
Un tempo era importante essere virtuosi e la virtù era compatibile con la malattia. Adesso, se si è sani, si può essere viziosi, si possono liberare componenti della personalità primitive e narcisistiche, senza preoccuparsene in alcun modo.

Alla fine del XIX secolo sono stati pubblicati due libri paradigmatici e in qualche modo profetici: Lo strano caso del dottor Jekyll e Mr. Hyde di Robert L. Stevenson nel 1886 e Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde nel 1890. In essi assistiamo all'esplicita prefigurazione del problema centrale della modernità: il narcisismo.

Un tema col quale è giocoforza fare i conti, non solo in sede tecnica ma pure in seno alla società, specialmente per la progressiva estensione della definizione di identità individuale nel mondo occidentale.

Per lunghissimo tempo la comunità è stata composta da pochi individui appartenenti agli strati sociali elevati e da una generica massa informe senza volto. Infatti, sono attributi della ricchezza e del potere l'immagine e l'avere o presumere di avere un corpo (benché noi siamo e non abbiamo un corpo).

L'evoluzione democratica ha portato ad una distribuzione del potere dal centro alla periferia, in senso sia economico che psicologico, con conseguente spostamento dell'identità individuale dal centro dalla periferia, perché il fenomeno avviene nel macro e nel microcosmo. Il processo è inevitabile e si accompagna all'aumento di mezzi e di libertà dei gruppi e dei singoli.

Sempre più soggetti arrivano a godere di diritti garantiti dalle istituzioni nel nostro ambito culturale e ciò spiega l'aspirazione diffusa a entrarvi, nella speranza di acquisire diritti senza doverli conquistare.
Sono già definiti, basta varcare un confine per ottenerli, tanto che gli stessi animali si avviano a vedersi riconosciuti titolari di diritti in quanto esseri viventi individuati.

Si tratta di una grande conquista, tuttavia numerose sono le conseguenze negative e non possiamo non preoccuparci degli “effetti collaterali”.
Non si può aumentare o incoraggiare la “libertà” e poi non occuparsi degli strumenti necessari per gestire la coscienza della individualità.

Oggi l'individuo è una sorta di "stato" a sé, il che per molti si rivela una tragedia, poiché significa trovarsi in balia di componenti caratteriali ed istintuali del tutto incapaci di costruttività e creatività. Il danno è assicurato per sé e per gli altri, ancorché si faccia finta di niente.
La barbarie è già iniziata, perché in verità parte integrante dello sviluppo.

Nel libro di Stevenson il protagonista, un medico esponente della élite sociale, compie anzitutto un passo che di solito viene saltato, cioè il riconoscimento dell'Ombra: esiste un'area moralmente negativa, inferiore, primitiva ed elementare della personalità di cui è indispensabile prendere coscienza.

Nel benpensante tutto compreso della propria importanza troviamo un'altra versione del narcisismo estetizzante di Dorian Gray, perché anche il moralista tradizionale è innamorato della propria immagine pubblica sotto forma di reputazione, trovando modo di esigere intima soddisfazione mentre si mette al servizio della comunità.

Per le nostre strade possiamo vedere trionfare ambedue i personaggi. Da un lato, veri e propri ritratti, puramente immagini e non persone, individui identificati con la loro apparenza che chiedono di essere trattati e trattano gli altri come immagini, prive di contenuto e spessore: sono raffigurazioni, dipinti, dietro non c'è nessuno. Se ne vedono ovunque.

Dall'altro lato, giovani e adulti che sono letteralmente delle ombre. Si potrebbe dire che siano i Mister Hyde dei loro genitori, perché c'è grande compiacimento di questi ultimi nello spingere i figli a realizzare tutti i desideri, a fare tutto quello che essi non hanno potuto fare, ad attuare ogni fantasia o sogno, a comportarsi come vogliono e provare tutte le sensazioni possibili.

L'autocompiacimento si traveste talora da lagnanza o finto scandalo, e si capisce bene che le stesse condotte per le quali si invoca repressione sono ufficiosamente se non ufficialmente approvate. Finanche gli slogan del Ministero parlano di “a tutto sballo, a tutta vita”, avvalorando implicitamente un dato modello comportamentale.

Sembra impossibile fare a meno della discoteca, rinunciare a certi divertimenti massificati, che sono la testimonianza del fallimento della capacità di godere.
Il fatto è che molti dei cosiddetti giovani in realtà non lo sono, perché in ogni tempo la gioventù, per dirla con Robert Musil, è molto più anemica di quel che sembri e ci si fanno illusioni sul suo sangue gagliardo.

Nell'attualità, la gioventù intesa come elemento propositivo (oppositivo in senso costruttivo) pare piuttosto deficitaria. Prevalgono in effetti gli adolescenti a vita o gli eterni bambini rispetto ai giovani, visto che la giovinezza dovrebbe configurare un preciso periodo temporale in termini di identificazione e di compiti evolutivi.

Appare chiaro che al momento la preferenza vada al restare adolescenti, nonostante il gran parlare del “disagio giovanile”, terminologia usata quasi a mo' di vezzeggiativo. D'altronde, le risposte al problema sono povere o approssimative.

Una è la banalizzazione: tutto dipende dall'età (?), è una "fase tipica”. Un'altra è l'ideologizzazione: vi sono cause economiche e sociali, la mancanza di strutture e servizi, le carenze dell'istituzione scolastica. Un'altra ancora è la medicalizzazione o la psicologizzazione, che sono quasi la stessa cosa: il disagio passa da condizione difficilmente definibile a disturbo ben individuato (sintomi, malattie, etc.).

A quel punto tutte le problematiche possono in apparenza esser tenute sotto controllo con la medicina o le psicoterapie. Le cause devono essere alla nostra portata, altrimenti sfuggono alla pretesa di controllarne le manifestazioni, che si spinge fino al punto di ipotizzare la totale scomparsa anche del disagio “naturale”, quello compreso nel prezzo del vivere.

In questo senso non esiste il disagio giovanile, esiste il disagio di essere uomini in diverse epoche della vita ed è qualcosa che non si può neanche contestare, se ne può solo prendere atto in termini esistenziali.

Noi abbiamo spostato le cause dell'infelicità dalla dimensione antropologica a quella sociologica, e in tale dirottamento la psicoanalisi ha dato un bel contributo. L'unica ragione dell'infelicità umana è la morte, cioè il confronto con l'idea della morte, in tutti i popoli, ovunque.
Unica vera causa di infelicità e quindi anche di felicità, perché proprio la consapevolezza della caducità e della precarietà apre le porte della felicità.

Invece finiamo per credere che le persone siano infelici perché la mamma non le ha degnate di attenzione abbastanza a lungo durante l'infanzia o perché hanno conflitti con il loro partner o non sono soddisfatte del loro lavoro!

Esistono, è chiaro, forme e gradi differenti di infelicità, ma non c'è dubbio che una simile operazione di confusione distoglie a lungo andare le energie e l'impegno del soggetto dai compiti evolutivi universali verso tematiche secondarie. Sicché qualcuno può passare anni nello studio dell'analista senza affrontare mai il confronto con la propria identità "umana".

In un romanzo dello scrittore gay americano Edmund White viene descritta molto efficacemente l'atmosfera melodrammatica del salotto psicoanalitico, ove i pazienti godono di accusarsi dei peggiori crimini analitici (incesto, parricidio, perversioni) con grande disinvoltura e virtualmente all'infinito, perché ciò può servire ad evitare gli interrogativi sul senso/non senso della vita e a soprassedere sulla questione del darle un orientamento rendendola produttiva.

Far riferimento alle cause culturali del malessere contemporaneo non vuol dire cercare motivazioni secolari per de-responsabilizzare i singoli né spostarle su un piano privato. Vivere non è mai solo una faccenda di mamma o papà, perché l'identità di essere umano non può venire confinata nel recinto di una parentalità difettosa, di un romanzo familiare più o meno borghese.

Le difficoltà psicologiche rischiano di apparire fatti del tutto privati che non mettono in discussione e non implicano concezioni dell'esistenza e della società, finendo per giustificare ogni cosa a livello personale.
La responsabilità individuale esiste in qualsiasi ambiente, così come è trasversale ed ubiquitario il nodo critico del senso umano del vivere.

A furia di rincorrere la riduzione del disagio, si finisce per favorire il disturbo anche nei casi di malessere non patologico, perché la precisa definizione e le cure disponibili invitano a rifugiarvisi, a riconoscersi “malati”, psicologicamente se non fisicamente.

Accade perché la malattia in generale è vissuta come una fuga dalla realtà e quando diviene atteggiamento ipocondriaco è un tentativo di evitamento delle responsabilità esistenziali. Pertanto, con date descrizioni dei fenomeni c'è il rischio di far ammalare ancor di più, proponendo un catalogo di condotte inquadrabili in nosografie e curabili.

Il male di essere, tuttavia, non si può curare davvero, come ha scritto Emily Dickinson “i narcotici non possono placare il dente che rode l'anima”. Non vi sono farmaci per questo, benché ci facciano credere il contrario oppure ci inducano a ritenere tali argomenti irrilevanti con l'insistenza sul messaggio della priorità del benessere esteriore e della perfezione materiale.

L'antropologia ci insegna che per diventare uomini è necessario aprirsi al mondo dello spirito. Lo spirito non è gia dentro, esso entra in noi attraverso una fessura, cioè una ferita: “Attraverso il piccolo foro della ferita penetra l'immenso regno dello spirito” (James Hillman). La lesione, dunque, è necessaria, e se mai restano in sospeso i problemi della sede corporea, del momento e della presenza/assenza di soggetti significativi.

Essendo inevitabile, i vari popoli hanno cercato di strutturarla e controllarla mediante i riti di iniziazione, stabilendo quasi una volta per tutte il luogo fisico, l'epoca e i testimoni giusti.
Non possiamo certo riproporre metodi antichi, ma la sostanza rimane identica.

Il salutismo ha come obiettivo la vittoria perfetta di un corpo senza “aperture” e vuole a tutti i costi evitare la ferita; però, lo spirito accompagna la "lacerazione" e lo scacco dell'onnipotenza, non c'è altra verità.

Un discorso del genere risulta ovviamente sgradito o angosciante perché lascia nell'inquietudine: da cosa dipenderà e dove arriverà il colpo?! Sappiamo soltanto che ci attende una “sconfitta”, poiché c'è bisogno di una messa a terra nella fase della giovinezza, nella quale è più probabile e opportuna la caduta o rottura.
Ricordiamo che lo stesso Gesù, secondo la leggenda riportata da Robert Graves, era claudicante e che Giacobbe uscì zoppicante dalla lotta con l'angelo.

È indispensabile essere messi “a terra” tramite una ferita che ci colleghi alla realtà e agli altri esseri umani. Come crederci oggi, se tutti sono sospesi in aria, o volano addirittura in senso stretto sulle ali delle ambizioni genitoriali (vedi il caso della piccola pilota americana deceduta in volo)?!

Vengono poste in libertà componenti oscure e non-coscienti della personalità che non sono neanche riconosciute e con un fenomeno di raddoppio, per giunta, perché pure i grandi non vogliono rinunciare ad un briciolo del loro narcisismo. Essi generano e coltivano dei Mister Hyde in se stessi e nei figli, con licenza di espressione di elementi selvaggi, impudichi e perversi, senza rendersene conto e quindi non pensando di doverci fare i conti.

Infatti, è fondamentale riconoscere le parti ombra e stabilire con esse un rapporto dialogico per poter giungere ad una forma almeno parziale di dominio, poiché solo in tal modo le si può trasformare da prigione e pericolo per sé e per gli altri addirittura in occasione di crescita.
Alla fine, proprio sommando i vari addendi dell'individualità, cioè le tante personalità parziali e secondarie, si può realizzare il compito della totalità psichica.

Ciò significa che esiste una questione etica anche nella psicologia e nella vita psichica, e che ogni individuo è rimandato alla propria responsabilità.
C'è un rischio di entropia nell'amore rivolto solo a se stessi, nella vertigine del vivere per sé oltre natura, sganciandosi dall'interdipendenza dagli altri e dalla specie.

Noi rifiutiamo ormai ogni tipo di debito, eppure una parte della nostra vita non ci appartiene, non solo perché non dipende da noi ma anche perché appartiene alla specie e alla collettività (cosa che in passato era chiarissima per tutti).
Abbiamo la libertà di svilupparci ed enfatizzare la nostra identità: è un beneficio che si apre su un rischio, perché può dare adito a un abuso di potere.

Se guardiamo intorno, vediamo che le famiglie sono quasi tutte famiglie reali, con principi ereditari che non hanno nulla da conquistare perché devono avere tutto a disposizione, già pronto, spettando loro di diritto. Del resto, basta manipolare, usare e consumare per essere al centro del modello di realizzazione dominante ed ottenere con la forza (soprattutto del denaro) ciò che si vuole.

Non vi sono alternative: dobbiamo accettare la responsabilità di essere quel che siamo e pensare in termini di governo. È necessaria una disciplina, come dicevano gli antichi, un'ascesi, un esercizio per arrivare alla temperanza e alla padronanza di sé.

Il prevalere odierno del registro materno ci spinge a vedere del bene nella regressione. Siamo infatti passati dall'autoritarismo paterno, che ha sempre visto nell'infanzia qualcosa di perverso da controllare e incanalare, ipotizzando una natura negativa sulla quale la cultura deve prendere il sopravvento, al permissivismo materno, che si compiace di qualunque manifestazione della natura “infantile” e via via l'autorizza finendo per perdonare tutto.

Personalmente sono contrario persino al Telefono Azzurro, in quanto istituzione che deresponsabilizza gli adulti creando i tutori di professione dei minori, consentendo ai primi di fare i minori a loro volta!

Finiremo nelle mani dei bambini?! A giudicare dalle trasmissioni televisive in cui sono i bambini a inviare denaro per la solidarietà, non è una fantasia bensì una realtà, e tutti sono contenti, non c'è uno che avanzi un sospetto.
La società sarà a misura di bambini? In parte lo è già, dal punto di vista delle pretese di soddisfazione spropositate e dei modelli estetici.

Quando si libera la componente inferiore della personalità, consentendole di andare in giro liberamente fuori e dentro di sé, col tempo la componente adulta ne risulta depauperata e viene costretta a funzionare a un livello minimale, non può neppure prenderne coscienza e finisce per essere “assorbita”.
Per questo occorre incoraggiare le persone a capire e ad assumere la responsabilità, ri-orientando, se possibile, l'attenzione verso l'interiorità rispetto alla presa di possesso sugli altri.

Elias Canetti è stato in proposito un convinto assertore dell'importanza della moltiplicazione dentro se stessi delle personalità e del lavoro costante su di esse in modo di non voler più soggiogare gli altri. Si tratta di volere da sé e non dagli altri, non mirare a dominare il prossimo e ridurre la tendenza omicida che portiamo nei nostri contatti sociali.

Un noto saggio di Sigmund Freud del 1929, Il disagio della civiltà, ha sottolineato il prezzo che la civiltà esige in termini di repressione della sessualità e contenimento delle spinte aggressive. Freud si augurava alla fine del libro che l'Eros eterno riuscisse a mitigare gli effetti dell'Aggressività, antagonista altrettanto eterno, pur essendo un po' troppo tardi per il momento storico.

In effetti, se si continua ad alimentare una forza a livello di massa, ne risulta un'intera collettività che preme nella direzione della violenza e l'esito non può che essere distruttivo.
Dopo le grandi guerre si potrebbe dire che ha prevalso l'Eros, il quale però non ha un solo volto, perché anche la soddisfazione dei desideri libidici ha delle conseguenze negative e non può essere del tutto libera.

Non esiste civiltà senza governo dei comportamenti aggressivi e sessuali. Non a caso per Ferdinando Camon il problema è l'inciviltà determinata dal binomio ricchezza e ignoranza.

Ben al di là degli studi di medici e psicoanalisti, occorre applicarsi allora ad un lavoro culturale e sociale, in prima persona, aumentando anzitutto la consapevolezza personale, alzando lo sguardo dai dettagli delle “mode” e delle tendenze” per comprendere la complessità del fenomeno e per approntare rimedi da subito. È già in atto un'inflazione narcisistica, benché molti guardino con disinvoltura alle richieste generali di gratificazione.

Vi sono poi i catastrofisti che non vogliono muovere un dito e accusano la società di tutto. Non si fa nulla per la comunità e ci si aspetta che essa esista; eppure, siamo noi a costruirla o distruggerla tutti i giorni nei rapporti interpersonali.

Talvolta ignorandolo e talvolta affermandolo esplicitamente, viene coltivata una fiducia cieca nell'onnipotenza della società materialistica, ritenendo che il mercato e la democrazia siano in grado di contenere ogni passaggio all'atto e brama individualistica.

Andiamo avanti convinti di reggere benissimo, finché non avverrà un'esplosione o un annullamento totale. Forse è l'unica maniera per prenderne coscienza, arrivare al termine di un'esperienza, e a quel punto cambiare, ammesso di aver posto le basi per il futuro.

Mattia Morretta

Testo originale in Effetti collaterali del benessere: i nuovi sintomi del disagio giovanile, Conferenza organizzata dall'Associazione Italiana Donne Medico, Milano, 1996
Pubblicato come La civiltà del disagio sulla rivista Una Città, Anno VIII, N. 61, Agosto-Settembre 1997