Andare incontro alla persona
8 Marzo 2015
La solitudine scritta sui muri
3 Aprile 2015

L'identità e il senso nella vita con l'Aids. Problematiche psicologiche delle persone con Aids
Corso di formazione volontari ASA, Milano, 22 novembre 1989
Quaderno di documentazione COAM n. 3, Comune di Milano, settembre 1993

“Mi sentii d’improvviso molto salda, molto sicura: molto consapevole che la morte era in attesa ma non importava granché, dato che era l’unica cosa realmente pura che possa accadere nella cosiddetta vita”
(Fernanda Pivano, Postfazione del 1972 a Il vecchio e il mare di E. Hemingway).

È difficile avvicinare l’argomento Aids con strumenti tradizionali, ci serviamo perciò di intuizioni e pensieri non ancora sistematizzati, mantenendo vigile la volontà di capirne di più col trascorrere degli anni per trarre dalla consapevolezza beneficio e ricchezza.

I riferimenti utili per la comprensione sono culturali in senso lato, perché è necessaria un’apertura mentale, ovvero sentimentale e romantica, quando si ha a che fare con la sofferenza. Essenziale è provare delle emozioni, lasciarsi pervadere dall’esperienza mediante un’attitudine poetica.

Il linguaggio del dolore

Stando alla descrizione della base neuropsichiatrica dell’Aids i problemi psicologici non sarebbero che sintomi del coinvolgimento del sistema nervoso centrale, sicché i vissuti diventano accessori o secondari e i pazienti interessano solo per la verifica delle ipotesi diagnostiche e l’inquadramento sindromico.

Personalmente preferisco far riferimento al concetto di disagio quale condizione che compromette la qualità della vita di un soggetto dal punto di vista fisico e psichico, ma che non costituisce di per sé malattia, pur potendo predisporre a malattia.

Nel caso dell’Aids la compromissione fisica e l’invalidità rendono più complicata l’applicazione del criterio, tuttavia avere in mente l’idea del disagio aiuta perché predispone a pensare in termini bivalenti, alle due facce di una medaglia, delle quali una volta alla trasformazione positiva.

I disagi sono fattori di umanizzazione, se si ha la fortuna di far emergere la componente implicita, perché ciò che è potenziale non sempre si concretizza. In funzione di circostanze esterne e della capacità personale è possibile che la condizione di sieropositività si tramuti in una grande opportunità di crescita e profondità.

Esistono ovviamente anche le patologie mentali associate all’Aids, a volte non sono che la prosecuzione di quelle antecedenti, per esempio i disturbi di personalità tanto frequenti tra i tossicodipendenti.

Parlare di problematica invece che di disturbo significa soprattutto aprire la porta della comprensibilità. Grande disorientamento viene manifestato dagli operatori di fronte all’Aids in quanto alterità difficile da concepire e capire. Si parte da una differenza irriducibile che porta a credere di dover imparare da esperti cosa stia vivendo la persona interessata.

Al contrario, pensare che si tratti di problematiche umane aiuta a trovare dentro di sé i mezzi per illuminare un’esperienza altrimenti “oscura”, evitando di prendere le distanze e proiettare sui malati la negatività.

La condizione dell’Aids è comprensibile proprio sul piano emozionale, benché non sia riproducibile dentro di sé, senza che questo configuri un approccio rispettoso. Fare la scelta di comprendere è già compiere un atto di onestà, riconoscendo l’inevitabilità del risarcimento nel campo del volontariato: chi opera accanto alle persone con Aids le risarcisce in parte dei danni procurati dagli altri pur involontariamente.

Le motivazioni personali del volontario sono molteplici, però in termini sociali va coscientizzato l’aspetto della testimonianza con valore collettivo di chi si avvicina anziché allontanarsi.

Nel corso della storia vi sono condizioni che meglio di altre riescono a condensare i nodi tematici di un’epoca e l’Aids è una di queste, mescolando elementi sociali, culturali e sanitari o scientifici.

Definirsi esseri umani nella società attuale è quasi desueto e persino un po’ sospetto, date le sovrastrutture con le quali siamo abituati qualificare il nostro modo di vivere. Proprio perché oggi più che mai essere uomo è qualcosa di particolarmente complesso, il lavoro sull’identità è fondamentale.

La dinamica sociale

Occorre che ciascuno si riappropri dei fantasmi proiettati sui malati di Aids, spesso è l’aiuto migliore che si possa dar loro. Tutti vogliono qualcosa dalle persone con Hiv perché l’Aids è un fenomeno antropologico, quindi anche se individualmente non ci sono richieste dirette, è sufficiente respirare il contesto sociale per indirizzare una domanda a chi ne è portatore.

Si tratta di un fardello eccessivo sulle spalle dei più, un problema avvertito in maniera drammatica, anche se non si traduce in conflitti col vicino di casa o col partner e il parente. Potremmo definirla una questione metafisica: un individuo vive in un certo ambiente ed è influenzato dal pensiero altrui, finanche sotto forma di fantasmi.

Basta ricordare quando ci siamo sentiti vulnerabili o per qualche motivo in stato di inferiorità, per rendersi conto di quanto gli altri incidano su di noi pur senza farsi avanti, quanto in noi sia presente la società, quanto siamo fatti di chi amiamo e odiamo, di chi ci ama e ci odia, compresi quelli che non conosciamo.

Il consorzio civile o incivile agisce in modo determinante sull’esperienza del singolo. Perciò chi opera nel campo dell’Aids deve chiedersi cosa vuole da coloro che accompagna o di cui si prende cura. Spesso potrebbe accorgersi di volere che il malato rappresenti l’eroe che si confronta con la morte al suo posto, o addirittura di farsene scudo per avvicinare in modo protetto la stessa problematica Aids.

Qualche anno fa in Francia la morte dello psichiatra Didier Seux dell’Associazione AIDES ha lasciato tutti i collaboratori sconcertati, perché non si aspettavano la morte dalla parte dei medici. Sono i malati di Aids che devono morire per gli altri, senza che nessuno ne faccia davvero esplicita richiesta.

Esiste una richiesta in tal senso anche nella drammaticità con cui si descrive il volontariato, con l’accento sulle difficoltà di stare vicino a chi si confronta con la morte. È una modalità di rapporto con l’idea della mortalità e con le proprie paure irrazionali che porta a strumentalizzare la presenza del malato.

Ciò non vuol dire che chi è sieropositivo possa aiutare meglio un suo pari, piuttosto che è necessario aver consapevolezza delle richieste involontarie che vengono poste a chi si trova in condizioni di disagio e sofferenza che evocano significati di particolare impegno e grandezza.

Il malato e la persona

Del soggetto Hiv positivo o con Aids viene fornita un’immagine molto connotata dal punto di vista sanitario. Che amarezza ritenere di avere a che fare con singoli organi e microbi, frammenti di corporeità, umori e apparati, perdendo di vista l’insieme!

Può esistere un virus senza un soggetto che lo ospiti? Non c’è forse una risultante dell’incontro tra fattori microbiologici, organici e psicologici? Può esistere una scissione così netta fra fenomeni cellulari e mentali, sentimentali ed emozionali?

La scienza “classica” mira a scindere, ridurre in pezzi, anatomizzare, la scienza “romantica” tende a non perdere di vista la complessità e la socialità dell’individuo. Un essere umano anche se gravemente malato resta una persona, cioè un insieme che tenta di conservare la propria identità.

Uno sguardo di questo tipo cambia radicalmente la prospettiva propria e altrui, perché il nostro approccio è già uno strumento qualitativo e facilitatore di potenzialità.

L’Aids consente di apprendere cosa significhi essere e restare umani in circostanze che potrebbero ridurre l’individuo ad un ammasso di organi devastati da un virus e dal crollo delle difese immunitarie.

Ritengo vi sia una grande paura di incontrare una persona e non un malato di Aids, perché si tratterebbe di riconoscere anzitutto una condivisione, l’immedesimazione e l’identificazione, lasciando agire l’immaginazione simpatica che ci fa provare un certo vissuto grazie alla natura umana.

Chi sceglie di lavorare nel mondo dell’Aids si sottopone ad un fuoco di fila di interrogativi, tuttavia mettersi su una strada non garantisce di fare gli incontri previsti o auspicati, perché è dentro di sé che deve avvenire l’incontro.

Occorre avere nel proprio bagaglio personale come patrimonio la convinzione che anche nelle condizioni più avverse si è degli esseri umani, che comunque sia ciascuno cerca di mantenere la propria identità. Perciò non si è snaturati anche se si è indementiti o in stadio terminale.

Possono risultare molto utili le parole di Mark Feldman citate da Dennis Altman in L’Aids nella mente dell’America (1987): “Il 1° novembre del 1082 ero una persona, un essere umano. Il 23 dello stesso mese la mia diagnosi e la gente mi etichettarono come una vittima. Poi cominciarono a chiamarmi paziente con Aids, ebbene, come tanti di noi già sanno, io sto cercando di dare una definizione di me stesso: sono una persona con Aids, un essere umano, non una vittima, e divento paziente solo quando vado all’ospedale”.

Ciò implica che bisogna pure permettere all’individuo di essere malato, poiché esiste sempre l’altra faccia della medaglia del pensiero positivo, che impedisce al singolo di ritrovarsi con le debolezze, le fragilità e i timori di chiunque, nonché di avere bisogni propri di chi è transitoriamente o stabilmente malato.

A livello sociale non esistono persone con Aids, bensì soltanto malati e possibilmente all’ultimo stadio, perché è in atto una gara a vedere l’Aids sotto la peggiore luce possibile, un pessimismo spacciato per realismo.

All’estero sono stati pubblicati molti testi di matrice solidaristica sulla volontà di vivere e sulla ricostruzione di un progetto esistenziale. Da noi ci si limita a offrire trattamenti o palliativi di tipo psicologico, perché si crede poco che l’individuo possa diventare protagonista di una rivalutazione della propria vita e del proprio stato.

Ciò in parte dipende dalla quota di tossicodipendenti tra i malati, ma i fattori in gioco sono altri. In fondo fa comodo dire: “I tossicodipendenti sono refrattari a qualsiasi messaggio”, erano già persi prima, figuriamoci dopo la diagnosi!

Il percorso di adattamento

Gli stadi individuati per il cancro da Elizabeth Kübler-Ross sono ritenuti validi pure per l’Aids, benché la stessa autrice parli in proposito di “deserto emozionale” a proposito dell’atmosfera sociale in cui si muove il malato di Aids.

Perde senso il dilemma su cui dibattono gli psicologi riguardo al grado di informazione da fornire al paziente, perché in questo caso la diagnosi con la prognosi infausta è sbattuta in faccia, il sieropositivo è soltanto un “malato in potenza” come dice Susan Sontag.

I meccanismi difensivi (negazione, isolamento, rabbia, contrattazione, depressione e accettazione) sono comuni a tutti coloro che affrontano una minaccia o ferita molto profonda. Il soggetto prima tenta di negare quanto accaduto per limitare il dolore, poi prova rabbia per l’ingiustizia o invidia ; in seguito cerca di contrattare l’uscita dalla sofferenza e quindi passa attraverso la depressione per la perdita subita, sino ad arrivare all’accettazione.

Esiste una cronologia, però le fasi possono essere compresenti, perché sono modi di sentire fluttuanti. Non è detto che si arrivi ad accettare il fatto di morire senza rabbia o depressione, in uno stato di rassegnazione positiva, e nessuno va colpevolizzato per questo.

Davanti alla domanda “perché proprio a me?” la persona Hiv positiva è svantaggiata rispetto a quella che si ammala di cancro. Eppure, in ogni malattia grave esiste una tematica di punizione e di dazio da pagare, a prescindere dalle vicissitudini personali. Nel dolore fisico e morale si risvegliano elementi arcaici con aspetti di punizione, mutilazione e castrazione.
Nel caso dell’Aids però, la causa della malattia sembra evidente e non si può attribuirne la responsabilità ad altri.

La persona con Aids è forzata ad esser consapevole di quanto abbia meritato di ammalarsi, indipendentemente dalla colpevolizzazione altrui, perché è in gioco la sfera sessuale, oppure quella del comportamento deviante (tossicodipendenza).
Gli individui più colpiti dall’epidemia sono infatti caratterizzati dal nodo del poter meritare una condanna o una mortificazione.

Non è un tema da rifiutare in blocco, perché il ritorno del rimorso circa lo stile di vita gay offre uno spaccato del vuoto su cui si è preteso di costruire le conquiste civili a buon mercato, illuminando il disagio di vivere di buona parte degli omosessuali.

Trovare delle colpe dentro di sé per qualcosa che ci fa soffrire è anche un modo per razionalizzare e contenere l’angoscia, perché non dare un nome restando nell’incertezza è ancor più deprimente.

Didier Seux, lo psichiatra citato prima, ha paragonato la sieropositività alla nevrosi di guerra. Le persone sentono le granate scoppiare vicino a casa e in preda al panico scappano, improvvisamente chiamate in causa dalla possibilità di morire, in maniera inattesa, brutale e repentina.

Nell’Aids il fattore temporale è importante per i processi di adattamento, per questo è una scelta perdente rinviare troppo la coscienza, non è detto che si avrà tempo per assimilare, riflettere e rielaborare. L’età dei soggetti coinvolti è bassa, il che crea un’ulteriore difficoltà ad adattarsi al limite, senza contare che tutta la cultura contemporanea è impostata sul giovanilismo narcisistico.

Ne è conferma il fatto che alcuni scrittori omosessuali hanno tentato di pensare la propria morte in una prospettiva “estetica”, interpretandola quale conferma e riscatto di un’esistenza trascorsa in nome della diversità.

Il corpo della persona con Aids si trasforma in quello di una specie di “vecchio” alle prese con le infermità della vecchiaia. Un corpo parla e si fa sentire per conto di un’entità ultramicroscopica rinchiusa in cellule fondamentali per l’immunità, una bomba ad orologeria che non è dato sapere quando esploderà.

Ciò lascia profondamente disorientati e crea diffidenza nei propri confronti, percependo la presenza estranea di un ospite indesiderato e ineliminabile. Ne viene intaccata la fiducia in se stessi e si è portati a presumere un calvario di patologie, decadenza e malessere sino al trapasso.

Il soggetto si sente scisso tra l’avere ancora un suo corpo e il doverlo consegnare in parte al virus e in parte alla medicina. Da qui il lavoro da prospettare sul piano emozionale e psicologico per ricostruire ponti con la propria corporeità e con gli altri, individuando il maggior numero possibile di aree nelle quali esercitare un certo grado di controllo: dal poter scegliere quando ricevere la visita di volontari e parenti, alla predisposizione del testamento e della sepoltura.
Sovente i volontari fanno più del necessario, mentre è controproducente “strafare” perché incrementa il senso di dipendenza e di passività.

L’identità e il tempo

Anche se cerchiamo contenuti positivi nell’Aids non possiamo nascondere la sua tragicità, e tuttavia un conto è la problematica personale, un conto quella collettiva. Il singolo deve portare il peso dei propri problemi e non di quelli di chi ha intorno, né deve dimostrare qualcosa agli altri.

Occorre far sì che il soggetto possa vivere nella maniera più personale possibile tale esperienza, restituendogli la dignità e l’identità legate alla storia privata, non chiedergli di essere un malato tipico. Qualunque sia lo stato, bisogna aiutare a diventarne protagonisti in modo specifico.

Ci si confronta più facilmente col limite quando si è riempito la vita di un senso squisitamente personale, non certo quando si è vissuto in funzione delle pressioni altrui, perché allora si vive e si muore per gli altri.

La disistima tra gli omosessuali è molto più diffusa e profonda di quanto si pensi, sicché c’è solo da immaginare quanto possa essere sgradevole accorgersi di non avere abbastanza tempo per “riscattare” l’esistenza, nel senso di riappropriarsene e non di rimediare agli errori.

Se mi rendo conto di aver espresso in percentuale minimale la mia individualità allorquando arrivo a pensare di poter finire, diviene drammatico percepire il rischio di una morte altrettanto impersonale.

Si dice che l’annuncio della morte è il momento della trasparenza, in cui cioè si ha coscienza del non senso cui si è permesso di prender possesso della propria vita. Perciò molti preferiscono rifugiarsi nella patologia e nel ruolo di paziente, per evitare la consapevolezza dei vissuti di povertà e impersonalità o insensatezza.
Ne discende l’importanza di aiutare il soggetto a scoprire le carte da giocare estraendo le risorse proprie e peculiari per non dedicare l’esperienza finale alla collettività.

Uno degli aspetti che mi hanno più interessato della condizione di sieropositività è appunto l’aumento della consapevolezza, perché la mortalità conferisce identità affermando che noi siamo proprio noi e non potremmo essere nessun altro, non è possibile la sostituzione né in vita né in morte.

La vita ha un senso perché è temporanea, transitoria, in una dimensione che è spaziale, temporale, emozionale e antropologica. Individuarsi significa accettare anche il confronto col fatto che noi siamo “questo individuo” e non potremmo essere un altro o altri.

Nel passato la patologia e la disgrazia contenevano un messaggio per il singolo o il gruppo, pertanto recuperare una concezione pre-moderna dell’Aids può evidenziarne la valenza pedagogica, mentre la scienza le toglie ogni attributo non sanitario o biologico. C’è la possibilità di apprendere delle verità e persino di scoprire delle stanze interiori che prima si ignoravano, perché la coscienza consente un percorso più orientato e nella luce.

Molte reazioni negative all’Aids sono dovute al tentativo di sfuggire alla consapevolezza, soprattutto quando si sospetta di aver dato troppo spazio alla falsità. È cruciale allora incoraggiare la messa in discussione di sé per favorire la crescita delle risorse e dell’autenticità.

Nella comunicazione va fatto passare il concetto dell’utilità di pensare e di aprirsi al dialogo, perché ci si troverà arricchiti e non impoveriti. Non è vero che il pensiero porti approfondimento dei problemi, perché è possibile imparare a pensare in maniera costruttiva e finalizzata, accettando la sofferenza in prima persona.

Un certo grado di dolore va accolto intenzionalmente per poterlo trasformare in contenuto utile. Di solito si trasmette disfattismo o rassegnazione travestiti da tutela del benessere, inducendo a credere che è meglio non pensare a certe tematiche.

Il disagio in tutte le sue manifestazioni va messo nel conto e non ci si deve spaventare per l’intensità delle emozioni. Spesso temiamo che le emozioni possano destrutturarci perché riteniamo di non saperle contenere, persino quelle piacevoli. Invece via via si impara che si può farvi fronte, che è possibile vivere esperienze che altri reputano invivibili e impossibili.

La disperazione va accettata, ci sono fasi in cui è l’unica verità, ci sono soltanto lutto e depressione. Se passiamo attraverso la mancanza di speranza, c’è la possibilità di veder maturare l’altro versante, talora finanche di provare felicità per la soddisfazione dell’auto-realizzazione.

Se esiste il momento concreto della fine, la mortalità è un periodo che si dipana nell’arco di anni o mesi, tenendo conto del fatto che per l’uomo è sempre stato inaccettabile che la mente svanisca col corpo.

Per la persona con Aids l’orologio si è fermato e segna un’ora inesatta, la categoria tempo muta sensibilmente, per alcuni dopo la diagnosi c’è solo sopravvivenza, un’esistenza supplementare e irreale prima della esecuzione della sentenza.
Per questo è essenziale occuparsi della valorizzazione del presente da vivere in ogni caso come proiezione in avanti.

In tanti progettano e sognano, però non possiedono la dimensione del futuro, che si radica nell’oggi e nella continuità. Quando si diviene coscienti della concretezza della vita, ci si accorge che esiste il futuro. A volte si rimpiange di scoprirlo tanto tardi oppure di non avere compreso prima che i propri gesti avessero conseguenze, perché l’umanità è pure storicità (passato, presente e futuro), e la nostra storia personale lascia un segno nel mondo.

Si rivedono allora i criteri del comportamento, i propositi, i credo e i valori. Si capisce che anche i rapporti interpersonali vanno considerati alla luce del tempo da investire e spendere.

Il miglior modo di far fruttare la temporalità è vivere la propria presenza nelle relazioni, essere dove bisogna essere, per poi sentire di aver vissuto fino in fondo.

Mattia Morretta (1989)