Indagine svolta nel corso del Primo Convegno Nazionale delle persone sieropositive, 29-30 settembre 1990 Comune di Milano, Progetto Città Sane, 1991
L’interesse per le persone con Hiv è in genere conseguenza secondaria dell’attenzione per l’Aids come emergenza sanitaria e fenomeno sociale. Da un lato, si fa a gara per sottolineare la gravità e la fatalità della malattia, cui, si suggerisce, può opporsi solo una fiducia cieca nella scienza. In pratica la medicina si propone quale unica possibile “salvezza” proprio rivendicando la proprietà dell’Aids quale “semplice” patologia e accettando di patire una sconfitta transitoria.
Da questo punto di vista vengono considerati bisogni dei soggetti con Aids quelli dei pazienti, che gravano e premono sulle strutture sanitarie. In realtà le esigenze dei primi vengono assimilate alle necessità dei secondi e si chiameranno posti letto, organici carenti, formazione, fondi per la ricerca.
Dall’altro lato, mezzi di informazione largamente approssimativi diffondono un’immagine stereotipata delle persone coinvolte favorendo l’associazione “devianza-infezione” e incoraggiando l’illusione di una sostanziale estraneità tra l’Aids e il cosiddetto uomo medio, quasi l’Hiv non dimorasse nella comunità.
In Italia ne risulta enfatizzato il legame con il mondo della droga, al punto di comportare la giustapposizione delle due condizioni facendo coincidere le problematiche. Si finisce così per parlare indifferentemente di Aids e di tossicodipendenza ed emarginazione sociale, usando un linguaggio che confonde e mistifica perché l’accento sulla marginalità impedisce uno sguardo obiettivo e una reale conoscenza della situazione.
In tale ottica i bisogni degli Hiv positivi sono ricavati da una lettura sociologica sommaria e fuorviante, che porta a ritenere prioritari sussidi economici e case alloggio. La qualità della vita delle persone, venendo presupposto un preesistente degrado esistenziale, non viene neppure presa in considerazione, persino la qualità dell’assistenza sanitaria appare un optional, un lusso se non una pretesa.
Del resto, in caso di patologia conclamata sembra prevalere uno sfacciato cinismo: se non si può guarire, perché curare e preoccuparsi del livello delle cure, inteso anche come contesto logistico e atmosfera, preparazione del personale, scelta ragionata dei trattamenti, consenso informato?
L’unica curiosità che si è disposti a soddisfare ad intermittenza concerne il morire di Aids, perché come si vive con l’Hiv non interessa e non importa agli “altri”, che lo ritengono impossibile e tanto indesiderabile da non essere ipotizzabile.
Tra i suoi vari scopi il 1° Convegno Nazionale delle Persone Sieropositive, svoltosi in Milano nel settembre del 1990, aveva proprio quello di sollevare alcune questioni di solito evitate o trascurate: come vivere l’Aids? Che ruolo hanno e possono avere coloro che sono direttamente coinvolti nella dinamica sociale dell’Aids (ambito sanitario, mondo del lavoro, relazioni parentali e affettive)? Cosa hanno da dire i veri protagonisti?
Ci si è pertanto ripromessi di lavorare per far emergere la ricchezza dell’esperienza acquisita dalle persone con Hiv/Aids, quel patrimonio sommerso di conoscenze, consapevolezze, in una parola la saggezza che matura nelle condizioni di disagio.
Per raccogliere il maggior numero di informazioni utili sui problemi e le vicissitudini dei destinatari del Convegno, un piccolo nucleo di membri dei gruppi di auto-aiuto dell’Associazione Solidarietà Aids ha elaborato due questionari distinti ma correlati.
Uno, pur nei limiti di in certo grado di improvvisazione, mirava a valutare l’impatto della diagnosi sul piano psicologico, relazionale e comportamentale, dando risalto soprattutto alle modificazioni nella vita sessuale e nell’uso di sostanze. Il secondo, strutturato sulla falsariga di un modello francese (dell’Associazione Positifs), ampliato e adattato alla situazione italiana, cercava di delineare alcune varianti “fisiognomiche” degli Hiv positivi anche in quanto utenti dei servizi sanitari e cittadini.
In diverse sezioni sono stati indagati il rapporto col medico curante e i medici ospedalieri, la qualità dell’assistenza ricevuta, eventuali discriminazioni patite, il ricorso a medicine parallele o alternative. Mediante notizie sullo stato di salute, il sistema immunitario, terapie e profilassi, si è sondato il grado di informazione sul proprio stato e di motivazione a “sapere la verità”, come si usa dire impropriamente. In effetti, sono molte più di quanto si creda i soggetti in grado di porsi quali interlocutori attenti e responsabili degli operatori sanitari, ammesso che si sia disposti a riconoscerne la capacità di collaborazione.
E' stata inoltre data attenzione al tema dell’aiuto richiesto e ricevuto dopo la diagnosi (in famiglia, nella coppia, nel contesto lavorativo, nelle amicizie) e alle conseguenze nei rapporti affettivi e sessuali. Si pure tentato di capire se e come le Associazioni di volontariato esistenti rappresentino dei punti di riferimento effettivi, e se vi sia interesse alla promozione di esperienze di auto-aiuto e auto-tutela.
I questionari sono stati consegnati a tutti i partecipanti al Convegno unitamente ad altre materiale informativo in una cartelletta personale, nel corso della registrazione all’ingresso. Su oltre 120 presenti 90 li hanno riconsegnati spontaneamente e in piena libertà, ciascuno ha potuto rispondere per proprio conto e coi propri tempi.
Il contesto ha senz’altro influito sulla chiarezza e sulla precisione di molte risposte, perché il Convegno è stato molto coinvolgente sul piano umano, costituendo per i più la prima occasione di incontro e condivisione. La novità dell’iniziativa, la drammaticità dei contenuti, la volontà di partecipare quanto più possibile ai momenti di dibattito, il desiderio di essere attivi nel lavoro dei piccoli gruppi e l’esigenza di allacciare rapporti interpersonali, hanno ridimensionato e in parte oscurato l’importanza della raccolta dei dati da utilizzare in seguito.
Ciò si riflette nella maggiore applicazione riscontrata nelle domande sui vissuti e sulle emozioni a discapito di quelle su aspetti sanitari. D’altronde, l’indagine è frutto di un lavoro a più mani di persone con Hiv e qualche amico, tutti senza specifiche competenze in statistica e ricerca.
L’assenza di motivazioni per così dire “scientifiche” e di finalità di studio hanno fatto trascurare le consuete norme metodologiche. La buona volontà e la creatività hanno sopperito alla mancanza di perizia e professionalità, con un risultato che premia il coraggio dell’azzardo.
Va detto che la validità risulta minata da una serie di inevitabili particolarità: partecipazione elettiva di soggetti del centro-nord; contesto assembleare in parte dispersivo: auto-somministrazione e autogestione del materiale; popolazione selezionata dalla motivazione e dalle possibilità di spostamento e mezzi economici; individui in media più consapevoli della propria condizione. Tutti questi limiti comunque non tolgono valore al prodotto, ma incoraggiano a predisporre strumenti più raffinati ed articolati, non perdendo mai di vista la caratterizzazione umanitaria del gesto della conoscenza.
Da qualunque parte si voglia guardare l’Aids, non ci si può esimere dall’ascoltare e rispettare l’opinione dei diretti interessati. Le persone con Hiv hanno diritto di veder riconosciuta e considerata la competenza acquisita: convivere con la malattia e l’incertezza, con la sofferenza fisica e morale, e intanto far fronte alle carenze dei servizi e all’intolleranza o indifferenza sociale è difficile e doloroso. Eppure è anche opportunità di arricchimento e crescita, se è vero, come ha scritto Emily Dickinson, che “non conosciamo mai la nostra altezza / finché non siamo chiamati ad alzarci”.
Mattia Morretta (1991)