Da uomo a omo, Conversazione con Claudio Risé, 1998
6 Ottobre 2014
Alienazione e liberazione sessuale, 1978
6 Ottobre 2014

L'identità e l'identico

Intervista a Leo Bersani (autore di Homos )
Novembre 1998 (non pubblicata su Babilonia)

Domanda: Michel Foucault ha scritto che all’omosessuale è sempre stato ingiunto di scegliere tra due inesistenze: “non apparire, se non vuoi scomparire”. Il suo discorso sulla vanificazione dell’identità gay, in relazione alla maggiore visibilità e persino alle conquiste degli ultimi decenni, può essere considerato una riprova della validità dell’assunto? Il fatto di costituire una componente separata della società (anche logisticamente: prevalenza in date aree geografiche, concentrazione urbane, quartieri gay), non alimenta e mantiene l’impressione di un processo di assimilazione dall’esterno, per forza di cose traumatico o violento, in qualche modo il rovescio dell’espulsione? C’è modo di sfuggire all’alternativa visibilità/invisibilità per affermare la realtà di una presenza sociale diffusa?

Risposta: Il problema della visibilità è mal posto. Più che di cosa sia la visibilità, dobbiamo chiederci quali siano i suoi effetti. Certamente un primo positivo effetto della maggiore visibilità dei gay è l’acquisizione di diritti sociali e politici, e anche, o almeno così spero, la diminuzione della violenza verso di noi. Nel momento in cui diventiamo più visibili è chiaro che ci poniamo più domande su noi stessi.  Cosa vogliamo essere? Foucault aveva parlato dell’identità gay come di un’identità di opposizione e resistenza. Quando questo tipo di identità viene a mancare, quale tipo di specificità rimane? Voglio sottolineare che per me la parola specificità è di grande importanza. A questo punto si pone il problema della assimilazione. Se i gay vogliono essere assimilati alla cultura dominante, che lo facciano pure. Ma quando veniamo assimilati accettiamo tutti i valori della società che ci assimila. La domanda fondamentale che i gay si devono porre è “Chi vuoi essere?”. Questa domanda viene ancora prima di “Che vuoi fare?”. Chi mi ha accusato di scrivere un libro poco politico non ha capito che la domanda dell’identità è la principale, da cui seguono tutte le altre. Tornando al problema della visibilità e dell’assimilazione, vorrei dire che, accanto al diritto all’assimilazione, dovrebbe essere concessa la possibilità di rifiutarla.

Domanda: Attraverso il suo discorso di “homo-ness” lei propone di lavorare sulla specificità dell’esperienza omosessuale e di ciò che comporta amare l’identico a sé. In pratica, lei parte dal ribaltamento dell’accusa di narcisismo rivolta ai gay per arrivare a fare in qualche modo di necessità virtù: accettare la sfida di dimostrare il valore e non i limiti del rapporto tra simili, sia per l’individuo che per la collettività. Le pare che il desiderio (omo)sessuale sia sufficiente a sostenere un compito come quello dell’amore? Non crede che troppo spesso il pragmatismo sessuale dei gay chiuda le prospettive relazionali nella gabbia vuoi della prestazione vuoi della coppia?

Risposta: Le rispondo con una domanda? Esiste una specificità nel relazionarsi dei gay? Potremmo vedere la tipologia del rapporto gay come una forma di rinnovamento del concetto di relazione? La parola “relazione” è sempre sentita come differenza tra due polarità distinte. L’amore verso ciò che è uguale a me e non diverso da me potrebbe essere visto come il prototipo di un nuovo modo di relazionarsi, una nuova forma di intimità. Qual è la situazione in Italia? In America e in Inghilterra i giornali e la cultura di massa tendono a strombazzare i valori della monogamia, del rapporto fedele e coniugale. Mi è stato detto che in Italia questo discorso è ancora prematuro, dato che molti gay vivono ancora con la famiglia e non hanno alcun desiderio di capire la loro identità gay. Una forma di totale ignoranza verso sé stessi, a quanto intendo. Se questa è la situazione è chiaro che i gay italiani non comprendono neppure il valore dei diritti civili.
Quello che vorrei si capisse chiaramente è che il rapporto con ciò che è uguale a me elimina quella conflittualità presente nei rapporti eterosessuali. Più che sulla violenza e il dominio, il rapporto gay si basa sulla ricerca di ciò che è simile a me e quindi non sentito come conflittuale. Esistono tipologie diverse di narcisismo. Uno è quello da sempre attribuito ai gay, una cura eccessiva della propria immagine. L’altro è quello che io chiamo un “parziale e imperfetto riflesso” del sé, ricerca di quello che manca al sé per poter giungere a una completezza che il sé sente mancargli. Quindi, direi un narcisismo imperfetto, che guarda all’altro come completamento di sé.

Domanda: Si può tracciare un parallelo tra il suo discorso sull’homos e sul valore inestimabile delle omo-relazioni e il messaggio di Foucault sull’amicizia come modo di vita, da un lato, e le affermazioni di Edmund White a proposito dell’archetipo del migliore amico quale fondamento dei rapporti gay? Detto in altri termini, l’identico è lo spazio della dimensione affettiva amicale?

Risposta: Non sono molto interessato al discorso su cosa sia l’amicizia e l’amore. L’amicizia include una varietà enorme di attività e di comportamenti. Si faccia poi attenzione al fatto che le parole “amore” e “amicizia” possono nascondere tendenze moralistiche. Il servizio migliore che si può fare al concetto di amicizia è quello di non definirlo.

Domanda: A suo dire l’omosessualità veicola “impulsi anti-comunitari”, una sorta di esigenza di sovvertimento delle forme sociali ordinarie. Eppure, non si potrebbe dire che la struttura portante della società sia sempre stata costituita dalle relazioni tra persone dello stesso sesso, quel che Roland Barthes chiamava “le due linee parallele di Sodoma e Gomorra”? Cercare uno scopo politico o culturale all’omosessualità è una maniera di compensare la presunta mancanza di scopo biologico? Come dire che l’omosessualità debba essere almeno produttiva non potendo essere riproduttiva? Si sbaglia a porsi il problema del significato antropologico dell’omosessualità?

Risposta: Questa è una domanda che mi aspetterei da un conservatore eterosessuale, è come se si pensasse che essere gay è una malattia, come se i gay fossero storpi o malati. Non ho nulla da dire al riguardo. 

Mattia Morretta (1998)