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I bisogni delle persone omosessuali
La Fenice di Babilonia N. 2, 1997

"Io sono la somma delle cose compiute, e il ricettacolo delle cose a venire" (Walt Whitman, Il canto di me stesso, 44, 1881)

Negli ultimi anni è diventato evidente il declino della discussione e del lavoro di approfondimento all'interno delle organizzazioni omosessuali, a vantaggio di un atteggiamento molto più propagandistico rivolto all'esterno. Ciò è avvenuto e avviene in un momento storico nel quale tutte le condizioni problematiche rischiano di essere banalizzate e svuotate di contenuti specifici.

Le persone omosessuali (terminologia che sarebbe preferibile usare, abituandosi a considerare la parola “omosessuale” quale aggettivo e non sostantivo), specialmente gli adolescenti, si trovano a vivere in una realtà che sembra quasi priva di collegamenti con quella antecedente, perché da individui sgraditi e antisociali paiono d'improvviso diventati soggetti integrabili nella società senza troppe complicazioni.

L'omosessualità viene rubricata come “normale”, qualcosa di facilmente accettabile per l'interessato, persino la famiglia può assumere un atteggiamento aperto e vede la luce una associazione di genitori.

 

L'identità gay “facile” come bene di consumo

Nella società moderne tutto ciò che può essere “consumato” si trasforma in oggetto a pieno titolo nel circuito della comunicazione, assurgendo ad uno statuto indipendente dal suo valore e dal significato.

Se è “vendibile” e può generare mercato, qualsiasi cosa viene trasferita su un registro di tolleranza o accettabilità, prescindendo dai suoi connotati morali, anche grazie al fatto che il sistema di Potere funziona sempre più per contrattazione tra categorie o gruppi di pressione.

In Italia esiste attualmente, quasi alla stregua di un prodotto d'importazione, la “minoranza” degli omosessuali con diritti da rivendicare e una rappresentanza politica (benché con alterne vicende elettorali). Si è affermato così il concetto di una minoranza sociale, fondata su una particolare condizione sessuale, che deve poter sedere ad un tavolo di mediazione con le autorità istituzionali.

Tutti gli atti compiuti dal movimento gay nell'ultimo decennio vanno in questa direzione e possono apparire consequenziali, se li si guarda da fuori; osservati da dentro si nota con chiarezza che non corrispondono ad una effettiva evoluzione della mentalità soprattutto degli stessi omosessuali.

Gli uomini, infatti, non cambiano facilmente, semmai si trasformano, indossando gli abiti di moda senza modificare la sostanza. Il costume esige che tutto sia facile, perché la difficoltà non è consumabile, tutti rifuggono da quanto non è immediatamente fruibile o è complicato e faticoso da conseguire e comprendere.

Se le identità non hanno a che fare con la profondità e attengono alla superficie o all'apparenza, anche quella omosessuale diviene più affrontabile e presentabile. Qual è il problema, in fondo? Basta riconoscere il dato di fatto! Certo, vi saranno disguidi per via di genitori un po' retrogradi o datori di lavoro non aggiornati, ma niente di insuperabile.

Poiché tutto deve essere semplificato, si arriva a banalizzare i dilemmi che tutti sperimentano in concreto e tra la vita reale e la sua rappresentazione si crea uno scarto enorme.

Nella società della comunicazione di massa il divario tra l'immaginario e l'esistenza è per forza di cose amplificato, al punto che il modo in cui i fenomeni vengono raffigurati o descritti è ben più che poco verosimile, spingendosi a confondere le idee e generando ulteriore pregiudizio (magari “positivo”).

Un esempio. Quando l'Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato l'intenzione di modificare l'elenco delle malattie mentali cancellando l'omosessualità, sulla prima pagina de Il Corriere della Sera un giornalista si è divertito a scrivere: “Finalmente adesso gli omosessuali dovranno smetterla di lamentarsi di essere discriminati e perseguitati, perché a questo punto non ne esistono più le condizioni”.

Naturalmente la gente non si è mai basata sulle diagnosi degli specialisti nei manuali di patologie mentali per associare l'omosessualità alla malattia, poiché l'idea popolare è del tutto indipendente dall'etichettamento più o meno scientifico, corrispondendo a una “percezione” che esula dall'indottrinamento dall'alto e si radica nella tradizione.

p> Eppure, il modernismo pretende che alcuni minimi spostamenti nella definizione culturale comportino una diversa realtà. Analogamente, si presume che un linguaggio sciolto e facile, il savoir faire e la disinvoltura possano sostituire la presentazione di una condizione nella sua complessità.

Affrontare la tematica con serietà farebbe emergere che gli omosessuali non sono affatto così soddisfatti, sereni e felici come certa propaganda di parte vorrebbe far credere; e in particolare che non se la passano bene i più giovani e i più vecchi.

Il movimento gay ha largamente disatteso le problematiche psicologiche e interpersonali degli omosessuali, in quanto interessato principalmente, se non esclusivamente, al rapporto con le istituzioni e i partiti.

Ne è derivata una situazione via via più schizofrenica, per cui si parla di servizi di aiuto per i gay con ritrosia e ambiguità, temendo di dover ammettere oggettive difficoltà esistenziali, a meno che non serva politicamente sostenerlo.

A proposito di suicidi si forniscono cifre imponenti e si avanzano dubbi su forme dissimulate di auto-soppressione con l'accento sulla loro motivazione sociale (discriminazione, reazioni repressive delle famiglie).

C'è del vero nel sospetto, perché un'indagine francese ha rilevato un tasso di suicidi più elevato della media tra gli omosessuali che “non si accettano” (definizione, in verità, piuttosto approssimativa).

In Italia non disponiamo di dati attendibili al riguardo e tuttavia, se può far comodo, si sottolinea la gravità del malessere correlato all'omosessualità tale da poter spingere al suicidio, salvo poi sbandierare una immagine di estrema leggerezza e sorvolare sulle strategie di supporto e cura.

 

La politica soffoca la dimensione esistenziale

Dovrebbe essere fatta una netta distinzione tra le persone nella loro interezza e i membri di un gruppo in senso sociologico.

I bisogni di coloro che appartengono a una minoranza sono definibili a grandi linee e limitati a una precisa area. Fondamentalmente si tratta di tre richieste in sequenza: riconoscimento della presenza nel corpo sociale della specifica componente minoritaria; elaborazione di strumenti di tutela e non discriminazione; promozione di una cultura delle “pari opportunità” riguardo ai diritti fondamentali del cittadino.
Ciò implica comunque, nel tempo, l'approdo al piano dei doveri di partecipazione alla società, superando la pura e semplice rivendicazione dei diritti.

Altro è prendere in considerazione l'individualità e la personalità dei singoli omosessuali, i quali non hanno tensioni soltanto con la società bensì pure all'interno di se stessi e del proprio ambiente.

Per tener conto di questi elementi occorrono un approccio e una struttura organizzativa diversi da quelli ordinari, i quali risentono della estrema politicizzazione della militanza omosessuale italiana da sempre legata alle forze della sinistra (portate a interpretare tutto in termini materiali e poco propense a trattare le contraddizioni psicologiche).

La collocazione politica o addirittura “partitica” (perché ancor oggi l'affiliazione all'Arci Gay sembra equivalere ad uno schieramento a sinistra), da un lato crea equivoci ideologici riducendo la libertà di azione e pensiero, dall'altro lato porta a realizzare in prevalenza azioni volte ad ottenere rappresentanza istituzionale misconoscendo o sminuendo la questione dell'avanzamento culturale sulla tematica.

Ne è testimonianza il modo con cui è stato affrontata a livello nazionale e locale la crisi dell'Aids, divenuta occasione di ricavare finanziamenti e non di discussione seria sulla vita degli omosessuali (basta dare un'occhiata alla produzione del materiale informativo e preventivo).

Leggendo le riviste gay ci si rende conto di quanta poca importanza venga data ai problemi emozionali e psichici, perché le lamentele, l'infelicità e le frustrazioni sono per lo più confinate nelle lettere alle redazioni.

Alle inchieste che evidenziano le difficoltà di integrazione (non dichiarazione in famiglia e con gli amici, solitudini sofferte) fa da contrappunto e soluzione la proposta di un salto verso la “normalizzazione”, consistente in un adeguamento al modello vincente e superficiale di comportamento e di identità. Puntando al ribasso, si raccoglie poi ben poco in termini di coscienza di sé e di qualità della vita.

L'immagine del gay realizzato, allegro, sotto i riflettori è la più venduta, pur essendo una finzione e non corrispondendo alla realtà vissuta, perché è ritenuta utile nel confronto con “gli altri”.

L'insoddisfazione, le debolezze, le pieghe oscure dell'essere omosessuale non hanno spazio neppure nelle relazioni tra pari, restando confinate in una sorta di retrobottega e venendo alla scoperto soltanto in alcune circostanze secondo modalità precostituite, perché purtroppo anche il lamento sulla sventura segue un canovaccio che impone di dire verità preconfezionate e in-autentiche.

La leadership gay ha in proposito molte responsabilità, poiché dovrebbe favorire una visione più credibile e più coerente possibile dei soggetti di cui si proclama portavoce.

Siamo ormai abituati a pensare all'identità come ad una questione inerente il rapporto con la società, nel senso dei problemi posti o creati da quest'ultima all'individuo (mentre fino a cinquant'anni fa era l'individuo a costituire un problema per la società). La focalizzazione sul fronte esterno conduce a sottovalutare o ignorare le concezioni che gli omosessuali hanno di sé stessi.

Concentrarsi sullo sforzo di farsi accettare dagli altri diventa spesso una specie di esorcismo, compiuto per evitare di fare i conti con la propria accettazione personale .

Il meccanismo psicologico è frequente, in particolare nell'adolescenza: ai “genitori” vengono attribuite volontà repressive di gran lunga superiori per un'esigenza interiore di emancipazione, la quale richiede in qualche modo lo scontro con un'autorità intenzionata a proibire o impedire la libertà.

Per un certo periodo di tempo può servire, ma alla lunga risulta inefficace e anzi controproducente, poiché avviene una fissazione in uno stato di dipendenza: si continua a collocare l'autorità e la potenza fuori di sé, chiedendo ad altri una libertà che va conquistata invece personalmente e a prescindere dal mondo.

Occorre distinguere con chiarezza tra il concetto e l'ambito della liberazione (che ha a che fare con il potere oggettivo e si invera nel sociale) e il concetto e l'ambito della libertà (che riguarda il rapporto con se stessi e con la vita).

La libertà non si chiede a nessuno, si prende. Si realizza attivamente e direttamente nella propria esistenza, in parallelo alla conquista dell'autonomia interiore, sulla base dello sviluppo individuale e storico.
Non si può chiedere agli altri: la libertà va trovata dentro si sé. Agli altri può essere chiesta la liberazione in quanto gruppo, non in quanto individui. La persona ha sempre da fare i conti con il problema della libertà.

 

L'auto-vittimizzazione e la sovrastima dell'intolleranza sociale

Gli attivisti gay operano sul patteggiamento politico e non danno peso all'incognita dei vissuti e del pensiero degli omosessuali medesimi.

È un atteggiamento molto diffuso tra i gay, che si sentono circondati da malintenzionati, non hanno mai fiducia nel prossimo, ritengono di non poter essere accettati e di non avere alcuna possibilità di prendere posizione nei confronti di chi sta loro intorno. Ne consegue in genere una condanna alla clandestinità, più auto-imposta che voluta da altri.

La persona omosessuale spesso si crede priva di forza e di punti di riferimento esistenziali, perché non sa mettere a frutto il patrimonio di risorse personali senza rinunciare all'identità sessuale.
Finisce perciò per “proiettare” la difficoltà di accettazione sgranando il rosario dell'incomprensione: “Gli altri non capiscono, non posso rivelarmi perché mi rifiuterebbero, i miei genitori mi caccerebbero di casa, non c'è spazio per me, il mondo non mi vuole, eccetera.”.

La collettività, è vero, manifesta una tolleranza fittizia, cioè di facciata. Tuttavia, nell'attuale grado di diversificazione e articolazione sociale, non è ipotizzabile una prospettiva di dominio assolutistico e autoritario, né forme di pensiero totalitario e manicheo.

Gli spazi sono senz'altro più numerosi di quelli immaginati e soprattutto di quelli utilizzati nella quotidianità, nella concreta vita di relazione, laddove si constata una diffusa tolleranza verso le condotte altrui, anche banalmente per indifferenza.

Una delle principali macchine infernali della modernità è proprio questa: tutto è permesso, perché niente ha importanza, come ha scritto Philippe Ariès. In teoria tutti i comportamenti si equivalgono e lo scarto tra normalità e devianza si riduce.
I contenuti specifici della diversità vengono minimizzati e ciò corrisponde ad un vantaggio parziale: se si alleggeriscono le conseguenze dell'identificazione omosessuale, risulta assurdo applicarsi a punizioni esemplari e leggi censorie.

Di fatto nel tempo è diventato “ridicolo” sostenere posizioni moralistiche forti sull'omosessualità, appannaggio esclusivo di istituzioni immodificabili o tendenzialmente statiche come la Chiesa.

A dire il vero, variazioni sono avvenute anche nella dottrina ecclesiastica, perché il famigerato “documento Ratzinger” parla di persone omosessuali e riconosce per la prima volta nella sua storia l'esistenza di una “inclinazione”.
Non è chiaro se sia un guadagno o una perdita rispetto alla tradizionale concezione cattolica, che non individuava persone bensì atti.

Per secoli non sono esistiti omosessuali ma sodomiti, cioè soggetti dediti ad una pratica, essendo il peccato alla portata di tutti perché il demonio è tentatore universale; solo di recente si è sviluppata l'idea di un tipo particolare di uomo. Dunque la Chiesa ammette l'inclinazione e non la pratica, in maniera non molto dissimile dal dettato riguardante altre pratiche.

È una posizione per certi aspetti ovvia, che può creare problemi agli omosessuali credenti; credo si dia troppa importanza alle dichiarazioni conformistiche delle gerarchie.

Le vivaci contestazioni dei militanti gay mostrano che c'è bisogno di un nemico, di un'autorità che neghi, per poter mobilitare energie oppositive. La battaglia seda parzialmente le ansie personali e offre l'occasione di agire per l'accettazione sociale dell'omosessualità.

L'affermazione però rischia di essere quasi esclusivamente rivendicativa, per cui il contenuto unificante e definito esiste in funzione del censore esterno; quando si esce dal recinto della politica e comincia l'area della libertà, allora iniziano i guai.
Emerge a quel punto il vissuto di un Potere che alita sul collo, uno spettro che si mantiene inalterato per gran parte dei gay, nonostante i cambiamenti intervenuti, senza presa di coscienza della sua natura psicologica.

I persecutori per tanti omosessuali sono infatti loro stessi, mediante la coltivazione di idee di inaccettabilità e di giudizi sommari, dalle quali discende l'impedimento alla realizzazione umana a causa della non impostazione di una strategia esistenziale sufficientemente ragionevole ed efficace.

 

La sopravvalutazione della sessualità e lo spreco dei sentimenti

L'eterosessuale non ha per statuto più gioie e soddisfazioni di un omosessuale; tra i gay invece c'è la convinzione di essere schiacciati dal peso dell'impossibilità: “qualcuno non vuole che io sia me stesso, che viva la mia vita e sia soddisfatto”. In particolare la fantasia è che si voglia loro proibire il sesso, sicché ci si ostina a considerare la pratica sessuale come nodo centrale e critico.

Una simile concettualizzazione sminuisce la valenza dell'omosessualità e fa credere che la difficoltà principale o l'unica sia quella di agire il sesso, identificando infine l'orientamento con gli atti. L'Aids ne ha messo in luce i risvolti più negativi, specie per tutti coloro che si sono abituati alla promiscuità e alla “quantificazione” dell'omosessualità.

L'individuo si attende che gli atti omosessuali confermino la sua identità di omosessuale e vi ricorre a tale scopo. Chi non pratica viene infatti giudicato “meno” omosessuale e si parla di repressione oppure di disfunzione al di sotto di una certa quota di attività sessuale.

Il “conservatorismo” sessuale è ritenuto un'assurdità per gli omosessuali: “Perché è omosessuale, se non fa l'omosessuale praticamente? Se non è interessato in modo particolare al sesso, se non vuole borchie o lustrini, o qualsiasi altra cosa esprima un erotismo perverso, se non è trasgressivo nella sfera sessuale, perché è omosessuale? Tanto valeva che fosse eterosessuale!”.

Sono stereotipi più diffusi e pervasivi di quanto si pensi. Il desiderio e l'interesse quasi ossessivo per il sesso agito sono considerati un tratto caratteristico degli omosessuali, chiamati pertanto a condividere tra loro esclusivamente un esercizio del sesso e un'intensità di bisogno sessuale molto al di sopra della norma. Eppure, grande è la varietà di costituzioni erotiche e tante le modalità di percepire la mancanza della sessualità, di desiderare o meno relazioni amorose.

In parallelo alla facilità del consumo sessuale, troviamo un'esasperata e insoddisfatta aspirazione all'affettività, all'incontro con il “principe azzurro” per realizzarsi sul piano sentimentale, nella quale però il sentimento si spreca e diviene sentimentalismo, del tutto avulso dalla realtà e molte volte contraddetto dai gesti compiuti nonché dall'impostazione generale della vita.

Da un lato, si dichiara di volere relazioni a due, con criteri presi a prestito dalla più grezza sottocultura amorosa, dall'altro lato intanto ci si comporta in maniera opposta senza avvertire minimamente (almeno in apparenza) la contraddizione.

 

La spinta al conformismo della socializzazione omosessuale

Michael Pollak ha scritto che c'è una carriera omosessuale e che tutti i gay la percorrono necessariamente. Il primo passo è identificarsi, cioè riconoscere i propri desideri sessuali specifici; il secondo è imparare modi, tempi e luoghi per soddisfarli.

Il coming out comprende il manifestarsi o uscire allo scoperto (una volta era “fuori dai cessi” in senso letterale – ora che vi sono sempre meno vespasiani c'è chi li rimpiange!), cioè dichiararsi e quindi inserirsi nella comunità omosessuale. Sono due processi in parte interdipendenti ma distinti.

L'integrazione nell'ambiente gay sovente costa altrettanta fatica del rivelarsi o esporsi con gli eterosessuali, perché si è forzati a passare attraverso vere e proprie forche caudine che impongono una mentalità rigida e una serie di condotte.

In America è talmente evidente, che nell'era dell'Aids non si contano (insieme ai pentimenti e ai rimorsi) gli opuscoli per insegnare ad uscire dal vicolo cieco del conformismo gay, poiché lo “stile” appreso condiziona tutti i dettagli del vivere, con l'aggravante di far credere a ciascuno di essere originale proprio mentre fa quello che fanno tutti i suoi simili.

Il modello di identità ha un aspetto di fissità e alcuni elementi tipici cui l'individuo deve adeguarsi ricavandone quale ricompensa la sensazione di affermarsi in quanto gay; dovrà recarsi in posti prefissati, fare lo ore piccole, fingere anche a sessant'anni di volersi scatenare nel ballo perché i luoghi d'incontro sono improntati al giovanilismo (ben prima che ciò si estendesse al resto della società), dovrà abituarsi a transazioni sessuali repentine e brusche, facendo passare attraverso tale imbuto tutte le sue esigenze di tipo affettivo e relazionale. Il che equivale a far entrare un elefante nella tana di un topo (parafrasando W. Reich).

Il fenomeno si può spiegare fino a un certo punto con la secolare interdizione dell'espressione culturale dell'amore omosessuale, benché essa abbia riguardato in special modo gli ultimi tre secoli e risulti correlata al declinare dell'importanza dell'amicizia fra uomini.

Un tempo l'amicizia aveva un ruolo rilevante, costituiva un valore dal punto di vista sociale, qualcosa di altrettanto significativo dei vincoli parentali (dall'antica Grecia sino al XVIII secolo), per cui non si sottilizzava sugli scambi tra maschi all'interno di quella forma di relazione.

In seguito, con la modifica della struttura sociale del Potere si è sviluppata l'esigenza di precisare il contenuto dei rapporti maschili, con uno svilimento via via maggiore dell'amicizia, oggi relegata alla fase dell'adolescenza.

Soltanto in tale periodo dello sviluppo viene ritenuto utile il contatto unisessuale tra coetanei, mentre in seguito l'amicizia è ritenuta un optional oppure una formula per definire legami privi di vera rilevanza e comunque non alternativi affettivamente alla famiglia.

 

La rassegnazione alla degradazione umana

Vi sono dunque a grandi linee due filoni principali (l'ossessione erotica e l'avidità sentimentale), che procedono parallelamente come due rette nel vuoto. La persona parte da un'esperienza di mortificazione dell'identità ed entra in un ambiente che impone disinvoltura e capacità di recitare la parte di individuo realizzato.

Il sistema degli scambi erotici nel ghetto omosessuale presuppone una particolare abilità di massimizzare il rendimento e minimizzare i rischi sociali nella gestione del sesso.
D'altronde, più ci si identifica con la propria sessualità, meno si accetta di incontrare persone intere, perché ci si propone “a pezzi”, come involucro e superficie fisica, lasciando a casa il resto in senso letterale (ammesso che sia possibile fino in fondo – in tanti comunque lo lasciano intendere).

La condivisione tra omosessuali deve riguardare piccole parti di sé, alle quali viene attribuita grande importanza in termini di piacere e di coinvolgimento emotivo e fantastico.

Per effetto di meccanismi psicologici l'altro diventa uno schermo sul quale vengono proiettati desideri del tutto privati ed egoistici non accompagnati da comunicazione; sicché si va in un dato luogo, si guarda il film e poi si va via senza aver incontrato qualcuno. Non è questione solo di saune, perché si può essere impersonali pure laddove ci si presenta con nome cognome indirizzo e telefono.

Chi fatica a vivere un'esistenza unitaria e coerente, e in quanto adulto ha bisogni sessuali e amorosi, non può permettersi di “perder tempo” nell'intrattenere contatti non funzionali. Gli altri servono solo per soddisfare l'appetito sessuale o per sistemarsi dal punto di vista affettivo, cioè per depositare in banca le esigenze sentimentali.

Pochi investono risorse affettive nella sfera relazionale, oppure lo fanno nell'ambiente eterosessuale e non in quello omosessuale, partecipando con l'insieme delle proprie componenti personologiche solo nei contesti in cui essi stessi passano per "regolari".

Gli eterosessuali, essendo maggioranza, non hanno bisogno di “presentarsi”, e infatti se si incontra un individuo si presume sia eterosessuale, a meno che non faccia qualcosa per dimostrare di non esserlo o lo dichiari, visto che per essere identificati come gay non è sempre sufficiente “mostrarlo”.

Chi è membro di una minoranza è costretto (non tanto dagli altri, quanto dal dato di fatto) a personalizzare la definizione della preferenza sessuale, quindi a pagare un prezzo molto più alto alla collettività.

Tuttavia, molte persone omosessuali vivono una vita del tutto o quasi fittizia, e non perché l'hanno scelto intenzionalmente, bensì perché nella gran parte delle loro relazioni sociali vengono ritenute o trattate per quello che non sono.

Una porzione fondamentale e costitutiva dell'identità è scotomizzata, separata e oscurata. Un conto è nascondere punti deboli dal punto di vista estetico o comportamentale, altro è occultare una condizione associata secolarmente all'anormalità.

Non può essere ritenuto secondario e senza conseguenze per il soggetto la questione dell'orientamento sessuale, che condiziona drammaticamente il progetto esistenziale. Ciò può spiegare perché molti omosessuali consumino e non spendano la vita, quasi tentassero di dare ragione dei pregiudizi.

In effetti, l'identificazione con stereotipi di perversione è un tentativo paradossale di sottrarsi a una condanna ingiusta mediante la sua giustificazione, cosicché a quel punto è tutto vero ciò che se ne dice in negativo: esseri instabili emotivamente, psicologicamente immaturi, immorali e facilmente ricattabili.

Prima o poi tutti i gay devono venire a patti con la propria identità e riconoscerne la diversità, ed è interessante verificare come ci si arrivi e quali conclusioni si traggano, perché la presa d'atto dell'attrazione per il proprio sesso non implica accettazione di sé e può fungere da anticamera di un lunghissimo processo di rassegnazione.

L'individuo si crocifigge da solo su una pseudo-identità sessuale rassegnandosi a un'esistenza ridimensionata, limitata e insoddisfacente, non concependo egli per primo la possibilità di raggiungere un equilibrio maturo, una completa realizzazione, legami basati su stima reciproca, parità e rispetto del prossimo.

Per avere rapporti paritari, infatti, è necessario essere liberi, altrimenti gli unici interlocutori possibili sono coloro che si ritengono indegni di sé e sui quali vengono proiettate le proprie aree degradate.

 

Essere e sentirsi omosessuali

Se osserviamo le immagini proposte dagli stessi autori omosessuali, ritroviamo molti esempi di questi percorsi obbligati in negativo. Dai derelitti di Proust ai criminali di Genet ai colpevoli sino al midollo di Pasolini, abbiamo una serie di precise rappresentazioni dell'angustia della condizione omosessuale, più realistiche di quelle della propaganda del movimento gay ma difficilmente utilizzabili quali modelli di identificazione e condivisione in positivo.

I giovani di oggi sono molto favoriti rispetto alle generazioni passate perché possono contare su pubblicazioni e opere cinematografiche nelle quali vengono proposte forme di relazione e di affermazione un tempo impensabili.
Non mi pare, però, che si mettano in discussione e ci si interroghi sui modelli che ne derivano.

Per esempio, fino a che punto si dice “accettazione” e si pensa invece “rassegnazione”?! Cosa vuole dire “accettarsi”?

Possiamo distinguere coloro che sono omosessuali e coloro che si sentono omosessuali. Chi è omosessuale non si sente affatto tale, perché si concepisce come uomo e persona e vive l'omosessualità come un aspetto caratteristico della personalità, uno dei “limiti” (tutte le identità sono limiti e la morte delinea il ciclo irripetibile di ciascun essere proprio perché è scomparsa dei confini individuali) entro i quali giocare la vita.

Chi si sente omosessuale lo si sente sempre, perché patisce un senso d'estraneità. Il soggetto ha l'omosessualità come si ha una malattia, una specie di parassita da cui tenta di liberarsi affannandosi a ricercare altre definizioni di se stesso.

In tal caso l'omosessualità non è integrata nella personalità, rimane un corpo estraneo, come ha ben espresso Pasolini in una lettera del 1950 : “Io ero nato per essere sereno, equilibrato, naturale: la mia omosessualità era in più, non c'entrava con me. Me la sono sempre vista accanto come un nemico, non me la sono mai sentita dentro”.

È qualcosa che si avverte “addosso” e da cui si è fortemente condizionati, una sorta di mostro esterno o di bestia interiore, che chiede di essere soddisfatta e succhia le energie vitali. Se un elemento tanto rilevante non è integrato, non è neppure alla portata della persona, nel senso che non si può scegliere cosa farne e trasformarne le espressioni.

 

Luoghi comuni

Vale la pena di passare in rassegna alcuni dei più discutibili luoghi comuni delle identificazioni gay.

a) Fashion-victims

A qualcuno sembra che “diventare omosessuali” significhi entrare a far parte di una consorteria snobistica e mondana, ostentando un atteggiamento arrogante e sprezzante. Sono quelli che hanno “la puzza sotto il naso” e che spostano sugli altri il disgusto provato per se stessi, avendo perciò bisogno di lasciare intorno a sé una scia di astanti che si sentano sporchi, brutti, inadeguati, non all'altezza, sentimenti che corrispondono al loro vissuto inconscio.

D'altronde, il senso di inferiorità viene spesso trasformato nel contrario, cioè in un bisogno impietoso di superiorità.
Essere operaio e gay non è “chic”, è una contraddizione in termini, è “impossibile”, perché una credenza assai popolare dipinge gli omosessuali sempre o quasi come benestanti, essendo l'omosessualità in qualche modo “un lusso”, per alcuni curabile con il campo di lavoro (“andate a lavorare!” valeva anche per gli omosessuali).

A tale mitologia fa da contraltare il fascino provato da omosessuali di classe agiata nei confronti del “popolino”. Confinati in una inclinazione “oltre natura”, gli omosessuali tendono ad attribuire ai membri degli strati sociali inferiori istinti e condotte più “naturali”, alimentando la fantasia nostalgica di un Eden incontaminato dell'eros, fatto di virilità, spontaneità e incoscienza.

Tali stereotipi sono ancora attualissimi, nascosti tra le pieghe di concezioni più “moderne”, coesistendo a volte con altre in aperto contrasto.

b) Viaggiatori senza bagagli

In uno dei primi romanzi in cui la società viene etichettata anche come “eterosessuale”, il libro di Michel Tournier Le meteore, il personaggio di Alexandre incarna con chiarezza l'idea di un omosessuale quale lupo solitario, un uomo non aggiogato al carro della perpetuazione della specie.

L'omosessualità è allora una “vocazione” che l'individuo deve saper riconoscere accettando un destino di solitudine. Egli deve evitare i cliché dell'omosessuale effeminato e colpevolizzato, della vittima che chiede l'aceto al proprio carnefice; al contrario, deve essere pienamente consapevole del suo fato di viaggiatore senza bagagli, un essere a parte odiato dagli altri in modo analogo ai cani alla catena rispetto ai lupi.

c) Eccezionalmente sensibili

La versione “romantica” dell'omosessualità ne fa un'esperienza anomala, ma capace di garantire scoperte e gioie accessibili solo a nature liberi e forti, in grado di scavalcare le convenzioni e le norme, arrivando ad una visione più piena della realtà.

Per molti scrittori omosessuali l'elemento distintivo e di valore è proprio la diversità associata all'omosessualità. Chi non trae vantaggio dall'ordine costituito, proprio perché subisce le conseguenze di una posizione marginale o deviante, ha la possibilità di scorgere gli ingranaggi sociali, la grettezza del conformismo e la banalità della morale corrente, giungendo ad una consapevolezza particolare dell'umanità.

In base a questo stereotipo, i militanti gay si aspettano che tutti gli omosessuali abbiano un'ideologia politica di sinistra, poiché essi non possono non capire le modalità dei rapporti di potere e quindi devono stare dalla parte degli “oppressi”.

Ci si attende inoltre una sensibilità e una coscienza specifiche, il che non è né scontato né garantito. Si può sfruttare l'occasione culturale di essere diversi in un dato contesto, oppure esserne schiacciati e stritolati identificandosi completamente nei marginali e perdendosi come granellini nella sabbia.

d) Normali o perversi

Il protagonista del romanzo di E. M. Forster Maurice costituisce, almeno in parte, una novità, perché è latore di un messaggio singolare: se diminuisce il conflitto tra individuo e società, se l'omosessuale non viene attaccato, potrebbe dimostrare di essere come tutti gli altri, nel senso di perfettamente integrabile e rispettabile.
Infatti Maurice è un soggetto piuttosto mediocre e non certo il personaggio letterario tipico con tratti estetici o morali morbosi.

Nella prefazione scritta nel 1960 Forster parla esplicitamente del rammarico per una società che non dà spazio a chi non vuole né corromperla né riformarla, bensì solo essere lasciato vivere in pace.

In Genet troviamo all'opposto la completa e plateale apologia della perversione, nell'intento di scongiurare la pena e la comprensione altrui. Alla devianza si aggiunge criminalità in base alla “politica del peggio”, rifiutando qualunque patteggiamento con la società e l'eventuale clemenza: non ci sono compromessi possibili.

e) La pazza svampita

Un altro esempio di atteggiamento difensivo è l'immagine della “pazza svampita”, che nasce dal tentativo di attenuare l'aggressività dell'ambiente assecondandone le aspettative.

L'assunzione delle stigmate diventa anche un modo di fondare un'identità di gruppo, perché la gergalità al femminile non è indirizzata solo al mondo eterosessuale. La minoranza per sopravvivere deve sviluppare un suo humour specifico, rendendo caricaturale il gioco dei ruoli e le difficoltà derivanti dalla rigida divisione tra maschi e femmine.

Va detto che la modificazione dei modelli di mascolinità e femminilità trascina con sé vantaggi comportamentali per i singoli individui, e non per via delle rivendicazioni omosessuali. La maggiore autonomia della donna riduce la necessità di rigidità nella definizione della virilità, per cui l'adeguatezza di un uomo non è compromessa dal fatto che indossi una gonna o faccia la coda ai capelli (tanto è comunque “inadeguato”!).

 

La problematicità è una ricchezza

Occorre dedicare tempo sufficiente a prendere coscienza dei modelli che ci vengono proposti sia dalla società che dall'ambiente gay, analizzando quale rispondenza abbiano nella vita vissuta, come si è arrivati a delineare la propria identità e le strategie di realizzazione.

Si tratta di un lavoro importantissimo, anche per non millantare e per agire più coerentemente a livello sociale. Gli stessi attivisti gay sovente hanno gravi problemi di accettazione personale e ciò impedisce proposte credibili e una pratica costruttiva sul piano relazionale.

Di fatto nella politica di relazione (cioè, dando vita a rapporti privati consistenti e significativi, nei quali vi sia fermento culturale e affettivo) si produce più di quanto si faccia in un certo tipo di impegno sociale, che finisce per risultare mistificatorio quando non si accompagna alla consapevolezza in prima persona.

Se non si è preparati a valorizzare i bisogni esistenziali, non si è in grado di accogliere coloro a cui pure si aprono le porte delle sedi politiche, anzi si rischia di far loro negare necessità primarie.

Se non vogliamo riconoscere il nostro malessere, le debolezze e le ferite della nostra storia, difficilmente potremo dare ospitalità ai problemi altrui concretamente. Ciò non significa divenire enti assistenziali, bensì puntare a garantire una disponibilità umana autentica per un confronto su un piano realistico.

Nell'intervento politico si cerca di costruire insieme agli altri delle palizzate per sentirsi più forti, mettendo a tacere le difficoltà di percorso perché sono “sconvenienti”. Oggi il pericolo è che non sia “di moda” esprimere il disagio di essere omosessuali e di cercare un'identità, perché chi va in un gruppo strutturato deve andarci già bell'e fatto, convinto e risoluto, e se non si mostra disinvolto ci si chiede il motivo del suo esser lì.

In verità, dovrebbe poter frequentare tali ambiti proprio per essere aiutato a riflettere sull'identità omosessuale, persino con lo studio in senso letterale, poiché si dà troppo per scontato che sia sufficiente ammettere la natura dei propri desideri per risolvere tutti i problemi.

Non si tratta di drammatizzare a tutti i costi la condizione, se mai di capire che la problematizzazione è una risorsa. Mantenendo elevato il tono dell'analisi si può arrivare ad un grande arricchimento rendendosi conto di cose che di norma vengono ignorate.

Incontrare "la persona" è oggettivamente un impegno gravoso e può mandare in crisi il funzionamento di una organizzazione politica, perché impone un ritmo lento e implica la creazione di momenti di confronto e servizi specifici.

La difficoltà di far aggregare omosessuali per iniziative di affermazione sociale sembra venire aggravata dall'apertura alla dimensione psicologica ed esistenziale: già si fa fatica a coinvolgere qualcuno per esercitare pressione politica, figurarsi se poi va fatto spazio al disagi dei singoli.

All'esterno si vuol dare un'immagine a tutto tondo, di forza e assertività. Tuttavia, un vero gioco di squadra (che in generale gli omosessuali sanno fare ben poco!) è possibile solo se ciascuno ha individuato la propria specifica risorsa e può contare su una identità profonda.

Le associazioni devono stabilire priorità e finalità, quanti e quali costi possano sopportare in termini umani, decidendo per esempio di orientare verso altri enti chi necessita di aiuto (centri per l'assistenza psicologica, consultori, eccetera). La solidità di un gruppo è comunque incrementata dalla verifica delle motivazioni e delle modalità di presenza dei suoi membri, coinvolgendoli su aspetti importanti e non soltanto su dichiarazioni superficiali o slogan.

Capita, in effetti, che i “militanti” si sentano gay e difensori della “causa” per il solo fatto di far numero ed elencare diritti, trascurando i doveri e la qualità delle relazioni interne.

Mettersi in discussione costa e provoca sofferenza, perché le profondità sono sempre dolorose. Finché si resta in superficie si può credere che tutto sia facile e conseguibile, con l'approfondimento si scoprono il dolore e l'incertezza. Eppure, è da tale profondità che dipende un risultato duraturo in termini individuali e collettivi.

I gruppi di gay credenti sembrano avvicinarsi di più a questa prospettiva, perché accanto alla riflessione sul testo sacro prevedono momenti dedicati alla socializzazione per soddisfare almeno in parte il bisogno di appartenenza e condivisione (la cena, la vacanza).
Spesso, però, viene disattesa l'elaborazione di modi alternativi di essere omosessuale e si incoraggia il ripiegamento privatistico.

Una parte rilevante della vita della persona omosessuale non può essere accolta né espressa nei circoli sociali esistenti, nei quali non si viene stimolati ad interrogarsi. Il gruppo deve rendere possibile la domanda e non tanto dare la risposta, deve favorire la manifestazione di bisogni e non fornire soluzioni.

I contesti umani sono di maggiore o minore qualità a seconda che consentano all'individuo di esprimere le proprie problematiche, sapendo di contare sulla semplice accoglienza. Più è possibile parlare delle debolezze e più cresce la fiducia, paradossalmente, perché la forza che proviene dalla accettazione dei propri limiti è molto superiore a quella che deriva dalla presunzione.

Mattia Morretta (1993-1997)