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L'ultimo metrò da Milano a Sodoma: saune su misura

Hanno denominazioni banali, per lo più anglofone, che evocano o puntualizzano l’appartenenza al contesto metropolitano, presenti per lo più nel Centro-Nord e di proprietà talora oscura dietro le sigle di questa o quella associazione.

In Milano ve ne sono parecchie, dislocate in zone diverse della città e di fatto frequentate da differenti tipologie di soggetti; elemento che ora viene proposto dai gestori come tratto caratteristico o originalità, al punto di invitare a provare i vari ambienti passando dall’uno all’altro nello stesso pomeriggio o nell’arco di una sera che può/deve inglobare l’alba.

A grandi linee, la clientela si caratterizza per le fasce d’età e il grado di cura del fisico. Nell’una puoi trovare giovani palestrati e snob, con una certa aria di superiorità e un ritmo da tapis roulant tipico dei milanesi; nell’altra individui più ordinari, con parecchi chili di troppo o senza molta preoccupazione per l’aspetto, nonché un atteggiamento più modesto e decisamente più rallentati o torpidi.

C’è poi quella malfamata e per questo appetita nei momenti da chi ha la luna storta e non vuol guardare in faccia nessuno, potendo perciò sorvolare su comfort e pulizia, badando alla consumazione sessuale prevista nel biglietto, grazie vuoi ai glory holes vuoi ai vapori oscuri.

Visito, un sabato pomeriggio, quella all’angolo della gay street, una via tutt’altro che gaia e persino poco strada, visto che si tratta di un corridoio di asfalto sporco e perennemente ingombro, di giorno spoglio e deprimente e di notte abbonato con le risse e i crimini.

Qui i più giovani ci tengono a mostrarsi all’altezza delle aspettative, che sono per lo più stereotipi di categoria, circa la massa muscolare minima e l’atteggiamento da ometto virile e assertivo. Fanno loro da contraltare un certo numero di ragazzotti sudamericani, dal colorito bruno e le capigliature da inca, spesso rumorosi e pasticcioni, sempre un po’ sopra le righe o effeminati, pronti a porsi al servizio dei padroni bianchi che ammirano e di cui ambiscono le attenzioni o lo sfruttamento sessuale.

La vicinanza con la stazione ferroviaria vi fa capitare qualche straniero di passaggio, orientali in città per turismo o lavoro, uomini maturi con la speranza di raccogliere qualche briciola caduta dal tavolo dei principali commensali.

Gli spogliatoi sono due, da un lato e dall’altro dell’ingresso, ma la ristrettezza dei vani impedisce di liberarsi degli abiti con agio e tranquillità. Sin dall’inizio l’angustia e l’assenza di supporti impongono un ritmo accelerato al soggiorno, bisogna svestirsi in fretta e in piedi, uno gabellino andrebbe diviso tra troppe persone, per giunta parte degli armadietti è in formato ridotto e si è costretti a infilarvi gli indumenti alla bell’e meglio.

In cambio (?) si dispone di una cassettina di sicurezza, gli asciugamani in dotazione sono uno o due a seconda del periodo, un profilattico può esser richiesto alla cassa.

Nella zona principale a piano terreno, che comprende le saune e le cabine con il lettino addossate le une alle altre, in pratica non vi sono spazi comuni di relax, scarseggiano persino le panchine e le sedie. Sarà anche per questo che gli avventori sono continuamente in movimento, una frenesia di passi e di passaggi che ha per sottofondo lo scrosciare dell’acqua delle docce (poche e collocate in un andito corto e stretto, quasi come per pro forma, e infatti raramente vi si attarda qualcuno, perché anche il gioco di sguardi è impossibile) e lo sbattere delle porte a vetri del bagno turco.

Nell'area delle cabine una tenda a corda conduce nella camera oscura, un labirinto da quattro soldi e quattro assi in cui ci vuol fegato ad avventurarsi, nel fondo più fondo si fatica ad immaginare il livello di igiene. Vi si sviluppano, probabilmente, pellicole ad alto contenuto hard, ovverosia i fotogrammi dell’abbrutimento dei più complessati e dei disposti a tutto.

A un livello rialzato rispetto alle docce, salendo alcuni gradini, si può usufruire della vasca idromassaggio, di dimensioni invero casalinghe.

Nello «specchio» d’acqua non molto invitante si alternano momenti di calma piatta e momenti di tutto occupato, full immersion. I volti dei bagnanti sono per lo più enigmatici, quasi da sfinge, sotto la superficie forse qualcosa si muove, facile presagire che accada solo il previsto, tanto che verrebbe da dire: è proprio la scoperta dell’acqua calda! Che ai «soci» paganti (sì, soci) siano vietati per contratto il dialogo spontaneo e l’iniziativa autonoma?!

La depressione da mal di mare è la regola; comunque, l’eccezione è anche peggio: le acrobazie o finte effusioni di amanti improvvisati, che poi in genere si salutano a gesti o con poche parole di circostanza («Avanti il prossimo!», pare quasi di sentire la voce metallica dell’altoparlante…).

Al piano superiore il bar, gradevole e attrezzato con postazione web, giace per lo più abbandonato (forse per il prezzo delle consumazioni!), mentre il moto perpetuo delle ante dell’ingresso a mo’ di saloon di una stanza con un gruppo di camerini rende agitato e quasi penoso il silenzio di base, che fa pensare alla metropolitana milanese nelle ore di punta (così tanta gente, eppure tutti estranei e incamminati a passo di marcia ciascuno per la propria invisibile strada).

Il rilassamento non è previsto, e infatti nelle piccole alcove plastificate e dotate di rotoli di carta e spruzzatore detergente ci si entra solo per agire, in modo risoluto, perché non c’è tempo da perdere, ogni occasione va presa al volo, chi tentenna è guardato con sussiego e presto archiviato come inadeguato all’agonismo in chiave sessuale.
Qualche doccia completa la zona, perché chi ha fatto pratica possa tonificarsi e ripulirsi (piccola consolazione, visto che, com’è noto, post coitum ogni animale è triste).

Una scala a chiocciola conduce al terzo piano o meglio sottotetto, ove la scelta è tra una saletta di visione dei film porno e un’altra camera oscura a prova di occhio di gatto (si direbbe poco frequentata, forse per la forma allungata e la collocazione logistica). Anche qui, il movimento è obbligatorio, pena la constatazione della bruttezza degli arredi e finanche dei video, oppure la noia del nulla da poter dire a vicini di posto lontani anni luce dal mondo civile.

Una nota a parte meritano i bagni: se ne contano tre in tutto, uno per piano. Non è un po’ poco per alcune centinaia di metri quadrati e decine di utenti!? Che ci si serva di altri non ortodossi servizi igienici?! Ulteriore notazione per la «musica» di sottofondo: è assordante e talvolta addirittura violenta, stendendo una coltre di rumore su parole già esigue e inducendo ancor più al mutismo da officina meccanica.

Il circuito per automobili da corsa ha due punti obbligati di convergenza e diciamo così concentrazione, ambedue al piano terra, nei quali il rallentamento e la sosta parrebbero fisiologici e opportuni, non fosse che per la denominazione del luogo.

Uno è la sauna finlandese, ove i contatti interpersonali sono ostacolati dal monitor con video porno, che ordina «a me gli occhi!», si occupa di dare ripetizioni di sesso, indurre in imitazione più che in tentazione, al prezzo del più rigoroso silenzio e del raffreddamento dei presenti, perché il calore intenso ma non troppo fa solo sudare ma non riscalda né corpi né animi.

Proprio come davanti al televisore, gli astanti diventano pubblico, inebetiti e saturati dalle immagini, il clima è da sala d’aspetto del dentista, solo qualche esibizionista tenta di richiamare un’attenzione fluttuante e presto spenta.

Vero centro di gravità e di vortice è il cosiddetto bagno turco, in cui si entra come dal fornaio per vedere se è pronto il pane di giornata, perché lo si pretende fresco all’inizio, benché poi si acquisti pure raffermo. È composto di due piccoli vani.

Nel primo, ben riscaldato di solito, dopo aver lasciato in una mini anticamera l’asciugamano fornito alla cassa (a rischio di sottrazione indebita, perché l’educazione civica è un optional e se si può fare un dispetto a qualcuno…), si nota un temporeggiare ansioso, vuoi per l’indecisione circa il prender posto sui disagevoli panchetti disposti lungo tre pareti (di plastica, stretti e scivolosi - su cui in ore e ore di traffici e palpeggiamenti qualche liquido organico più o meno fecondante viene certamente deposto), vuoi per l’attrazione esercitata dall’andito buio verso il quale i più determinati e impavidi si dirigono immediatamente.

Coloro che non se la sentono di sostare seduti rimangono in piedi e cercano una collocazione a metà tra la disponibilità all’approccio e l’indifferenza sdegnosa, la vicinanza visiva e tattile dei corpi nudi in certi momenti pare tesa e paradossalmente quasi fastidiosa, non è chiaro se i maschi presenti siano davvero non belligeranti nonostante la deposizione delle armi abituali.

Dall'antro, minuscolo e oscuro, giungono a volte silenzi da case infestati di spettri (non hanno memoria gli ambienti?!), più spesso fruscii, gemiti, rumori di mani che impastano nell’umido, colonna sonora di assembramenti nati e dispersi in un battibaleno, seguiti talora da fughe repentine di singoli o di “coppie”, visioni evanescenti di organi in erezione o detumescenti, che fanno pensare al prezioso seme gettato sulle piastrelle o sul pavimento di quella che sembra una macelleria, oppure sulla pelle di ombre corporee, forse addirittura introdotto e ingerito…

È lo scenario da girone infernale cui tutto sembra tendere, ciò per cui i peccatori impenitenti sono convenuti, quel che volevano o credevano di volere e qualcuno magnanimamente ha provveduto a rendere attuabile. Si comprende perché sia raro vedervi una persona sorridente o con un’espressione rilassata, se non serena; e anche perché negli spogliatoi si vedano pressoché solo facce contratte e artefatte, simulazioni obbligate per mascherare agli altri e a se stessi la frustrazione e la demoralizzazione per le ore sprecate, per gesti insensati, per il vuoto incamerato dopo aver immaginato di riempirlo o dimenticarlo.

D’altronde, i clienti non sono entrati per togliersi di dosso i panni del ruolo sociale e rinfrancarsi tra i propri simili, scambiare qualche chiacchiera, socializzare più facilmente che altrove, magari in modo leggero e disimpegnato ma non ostile o impermeabile all’incontro umano.

No, non sono in libera uscita dal tempo dedicato alla società e al lavoro: sono operai (benché spesso in possesso di titoli di studio e di professionalità, almeno sulla carta) alla catena di montaggio del sesso in frammenti, fatto a pezzi in senso letterale, reso sordo e muto, innominabile ancor più che anonimo.

Sono manodopera specializzata della fabbrica del divertimento erotizzato e obbligatorio in base a contratti con precise clausole vessatorie di cui nessuno osa lamentarsi (perché il «sindacato» è dalla parte dei padroni!), i cui proventi vanno tutti ai gestori, che si leccano le dita per la credulità e la faciloneria della clientela (nei giorni festivi l’ingresso è maggiorato: si paga di più per l’incremento della scelta tra i presenti?!).

Ai proprietari sì, conviene che i gay vivano tra saune, bar, discoteche, magazzini per il cruising, eccetera. E quelli gay si convincono e cercano di convincere gli altri che gli interessi coincidono, che entrambi mirano allo stesso obiettivo, che ci guadagnano tutti in libertà e soddisfazione.

Mi chiedo: come si fa a non capire che anche i circuiti commerciali per gay mirano ad assolutizzare l’identità di «consumatore»? Come le marche di detersivi per i piatti e per la pulizia della casa fanno a gara per difendere il tempo libero della donna, così i locali gay si fanno carico della gratificazione delle esigenze commerciabili della categoria; il che finisce per rendere superflua tanto l’iniziativa sociale e politica quanto la realizzazione di una comunità, e ancor più per ostacolare anziché favorire la creazione di rapporti interpersonali non finalizzati al consumo.

La «socializzazione», infatti, si nutre di scambi emozionali ed affettivi diretti, gratuiti, spontanei, utilizzando solo come mezzi e strumenti le occasioni, i luoghi, gli interessi, le preferenze, e così via.

In una sauna gay, paradossalmente, viene a mancare proprio ciò che dovrebbe farne parte per statuto e che spinge, più o meno consapevolmente, gli uomini a frequentarle: contatto visivo prolungato e libero, intimità fisica in stato di riposo e di abbandono, rispecchiamento corporeo tra maschi, nudità luminosa e naturale.

Quando si esaudiscono bisogni minimi e talora miseri (stimolazioni e fornicazioni a basso costo e senza responsabilità), quando si riempie la pancia della massa gay con cibi grassi ed edulcorati quanto basta (festicciole, spettacolini, spogliarellini, concorsini di bruttezze da emarginati, notti bianche tutto l’anno, magari con droghe e stimolanti per non sfigurare, mercificazioni con tanto di brivido criminale, accompagnatori di se stessi per interposto cliente senza cervello), quando per giunta si detta per filo e per segno cosa si debba desiderare e in quali forme, quando si fa in modo che non resti altro da fare che aderire alle offerte di consumo in saldo o tre per due tesserandosi al partito dei gay senza vergogna, resta ancora da dire o spiegare qualcosa?!

Se il sesso è tutto quello che accomuna i gay, l’unica offerta possibile sul mercato saranno varianti dello stesso prodotto, sotto mentite spoglie saranno sempre la stessa padella e la stessa brace tra cui operare la scelta di lasciarsi cuocere.

Ecco perché in certi ambienti si arriva a non fare più neppure lo sforzo di scambiare qualche parola o imbastire discussioni pur da bar o da bocciofila; il biliardo non c’è, le carte neppure, non si tratta di tergiversare nel dopo ufficio in attesa di tornare tra le pareti domestiche, neppure di ingannare l’attesa prima di cena o di andare a letto.

Sono luoghi finalizzati al cruising, dice la pubblicità, lusingando i professionisti della caccia perpetua, dell’atletismo e del calcolo in veste sessuale. Guai, anzi, a rovinare l’atmosfera, a introdurre un po’ di leggerezza e umanità. Al lavoro, al lavoro!

Esclusa la tenerezza fisica, scoraggiato persino l’incontro intimo e completo dei corpi, c’è solo da prendere un pezzo e metterlo nel vano superiore o inferiore, e via ripetendo.

Le camere senza vista in senso letterale, in effetti, sono buchi neri in cui si entra uomo comune e si esce gay tipico, fino a diventare manichino mutilato.
Sicché i conti della sessualità dei clienti paiono sempre in rosso, a dispetto dei continui accrediti gli addebiti sono impareggiabili.

I più, pur se non ne sono consci, lo percepiscono e lo intuiscono, benché non possano farlo trasparire per non tradirsi e sconfessare uno stile di vita votato alla dissipazione per ragioni altrui.
Quei pretestuosi contatti erotici e persino rapporti sessuali senza autentico desiderio né coinvolgimento personale costituiscono vere e proprie emorragie fisiche e spirituali.

Le pseudo-feste dei sensi anonimi sono per lo più infernali macchine di riciclaggio dei rifiuti di esseri umani che hanno abdicato alla loro identità, stoccaggio per la discarica di quelle che in origine sono risorse organiche e psichiche, liquidi preziosi altrimenti destinati al piacere nella luce dell’intimità o all’amore che saprebbe dire il suo nome. Godimenti, dunque, da prigionieri e da condannati all’ergastolo del consumo sessuale.Esco, sento l’esigenza di respirare un po’ d’aria. Più che tra vapori, qui sembra di stare in camere a gas.

Mattia Morretta (2005)