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Per una medicina umana

“E poi, a che pro impedire alla gente di morire, se la morte è la fine normale e legittima di ognuno? Che se n’ha, se un qualunque trafficante o pubblico impiegato vive cinque o dieci anni di più? Se l’umanità imparerà ad alleviare le sue sofferenze con pillole e gocce, essa trascurerà del tutto la religione e la filosofia, nelle quali fino ad ora ha trovato non solo una difesa contro tutti i guai, ma persino la felicità”
(Anton Ĉechov, Il reparto n.6 , Cap. V, novembre 1892)

Ogni malato ha un’anima oltre ad un corpo e il suo stesso cervello, secondo la moderna neurologia, mostra i tratti tipici di una identità specifica e differenziata.
Come sosteneva Goethe e ha ribadito Oliver Sacks, noi insegniamo ai nostri organi e a noi stessi a manifestare unicità.

Concepire l’approccio a un paziente come confronto con un individuo a se stante non è soltanto un dovere in senso etico, ma anche una necessità in senso scientifico, in quanto ciascuno è unico anche dal punto di vista biologico e ha una modellazione del sistema nervoso diversa da quella di chiunque altro.

Può forse risultare più efficace ricorrere alla connotazione scientifica per aver credito tra operatori sanitari, visto che l’etica è frutto di una scelta, coinvolge i valori personali e viene spesso considerata accessoria dai medici, nonostante il riferimento alla deontologia professionale.

Saper essere uomini

La formazione (tradizionalmente: sapere, saper fare e saper essere) si ferma per lo più alla acquisizione di competenze e abilità pratiche, trascurando la preparazione al rapporto con l’altro, che finisce per venir affidato al buon senso o a una sorta di generico ottimismo.
Un atteggiamento che può rivelarsi controproducente sia per il medico che per il paziente.

L’approssimazione con cui si affrontano soggetti portatori di sofferenza o disagio psicofisico fa credere di essere immuni da conseguenze grazie al ruolo e al camice. L’immunità, invece, non è possibile perché siamo sempre “conduttori di emozioni”, subiamo induzioni fortissime nel contatto con qualcuno che è malato o addolorato.

È assurdo ritenere che la professione medica debba essere esente da coinvolgimenti e sentimenti, perché la medicina ha radici antropologiche nella solidarietà interumana. Infatti, determinanti nella scelta di fare il medico sono le motivazioni di riparazione e risarcimento, che affondano nelle esperienze personali e consentono di parlare a ragione di vocazione.
Può trattarsi di ferite nella vita privata o di una sensibilità verso la malattia e la morte, benché il corso di studi sorvoli su tale matrice esistenziale.

Dunque, saper essere è centrale, specie quando si ha che fare con malati in gravi condizioni. Purtroppo la tendenza attuale localizza la morte in patologie o stati particolari, come se non fosse una realtà quotidiana oltre che una scadenza fissata per tutti.

Ciascuno di noi incontra la morte ovunque, per esempio nei suoi “assaggi” di delusione, sofferenza e privazione che ci colpiscono con durezza pur senza farci soccombere.

È necessaria un’impalcatura spirituale a sostegno dell’agire medico, in modo da render consapevoli i principi di base e il credo culturale.

La conoscibilità dell’Io dell’altro è un presupposto del rapporto su cui di rado si riflette. Non ci si chiede se si può conoscere e comprendere l’esperienza di un soggetto che vive una realtà umanamente complessa.

Davanti a una malattia che compromette la qualità della vita fisica e psichica, potendo a breve condurre alla morte, la competenza tecnica e gli strumenti ordinari mostrano tutte le loro carenze. L’incontro sul piano umano ne risulta enfatizzato.

In tali circostanze l’incertezza e l’impotenza del medico non dipendono tanto dal non poter dare una risposta in termini operativi e conoscitivi (quel che non si può fare e non si sa), quanto dal non sapersi porre davanti alla coscienza della mortalità e alla convivenza con la sofferenza fisica e morale.

È l’uomo allora ad esser messo in discussione, la malattia si rivela una prova del nove della personalità perché estrae dall’individuo tutto quello che si era accumulato nella sua storia producendo vissuti molto sgradevoli da sopportare (invidia, risentimento, meschinità, eccetera).

Per parte sua, l’operatore non può sfuggire agli interrogativi di senso, circa il significato e il valore della sofferenza, la concezione e il vissuto della malattia nella propria vita personale.

Così, se non ci sono parole per un uomo in difficoltà estrema, è perché molto spesso non sappiamo cosa dire a noi stessi in proposito, non ci siamo mai posti o abbiamo preferito evitare certe domande.

Come si può presumere di confrontarsi con chi soffre senza interrogarci sulla sofferenza? Senza chiederci se è una dimensione umana comprensibile o valorizzabile? Quali domande competono ad un uomo?

Questo ambito è lasciato di solito al linguaggio religioso o filosofico, emerge nei momenti in cui si inclina al pessimismo o al misticismo. Dando per scontato che il singolo rifiuti la riflessione sui contenuti del dolore e della mortalità, l’operatore pensa di potersi permettere di non sapere cosa l’altro stia vivendo, cosa si provi quando si sa di dover morire in un breve arco temporale.

La questione viene rifiutata d’istinto, ma non può essere rimossa o eliminata, né trasformata in una materia di puro studio in astratto. Gli strumenti conoscitivi aiutano a trovare modalità di difesa dalle angosce proprie ed altrui, ma non evitano una meditazione personalizzata.

Amare l’altro come se stesso

Quando si ha a che fare con una persona che ha una malattia inguaribile o è conscia della possibilità di morire nel breve o medio periodo, una metodologia fondata sull’oggettività e l’estraniazione è inadeguata e improduttiva.

Al contrario, occorre adottare il metodo della immedesimazione, cioè la comprensione attraverso la partecipazione, l’opposto della distanza e della freddezza cui siamo invitati dalla formazione scolastica tradizionale.

Il procedimento dell’immedesimazione prevede che io mi adatti intenzionalmente a ridurre la distanza dall’altro per vivere dentro di me parte del vissuto dell’interlocutore. Mediante l’analogia tratto i vissuti altrui come se fossero miei trovando in essi un senso, mentre grazie all’empatia cerco di capire la persona per come è e non per come sono io.

L’immedesimazione consta di due vie, una di andata e una di ritorno: si va verso l’altro e poi si torna su di sé, sui binari della proiezione e dell’introiezione, meccanismi psicologici usati comunemente in tutti i contatti umani.

Nell’entropatia il soggetto capisce gli altri basandosi su se stesso: sono io il riferimento, per cui mi aspetto che l’altro viva le cose a modo mio. Ad esempio, se quando sono ammalato mi identifico con la malattia e mi attendo di essere compatito, penserò che un altro nelle mie condizioni voglia esser compatito o commiserato; non mi verrà neanche in mente che esista un’altra modalità di convivenza.

Nell’empatia il riferimento è l’altro, è ciò che Francesco Campione ha chiamato “amore per il prossimo come se stesso”, in quanto l’esortazione evangelica va articolata e sviluppata fino alle sue logiche conseguenze.

Amare il prossimo come me stesso può portare a fraintendimenti e all’espropriazione dell’esperienza altrui non riconoscendone le qualità intrinseche.

Se chi conosce e cura ha difficoltà nel rapporto con se stesso, se non si ama e pretende di amare gli altri come se stesso, finisce per non amarli affatto. Un malinteso frequente a livello sociale nel volontariato, laddove si lascia in sospeso l’atteggiamento che l’individuo ha nei confronti della sua personalità e vita interiore.
Molte volte dietro l’aiuto altruistico c’è disistima personale o masochismo punitivo, il che porta ad irretire e rinchiudere l’altro nel proprio sarcofago.

L’immedesimazione non va lasciata all’istinto o all’inconscio, è necessaria una scelta volontaria e cosciente di adattamento. Si deve essere disposti a rischiare un’immersione pericolosa nel mondo dell’altra persona, rinunciando transitoriamente alle proprie certezze, alla rigorosa e confortante auto-definizione.

Nei corsi di formazione l’uditorio viene di solito rassicurato riguardo alla possibilità di un coinvolgimento diretto, ciò che provano altri esseri umani vittime di patologie o ostracismo non ci riguarda e non ci riguarderà.

Sicché, si osserva un documentario sulla vita di animali o popolazioni lontane evitando una effettiva identificazione. Al massimo c’è compatimento sulla base della superiorità e dell’estraneità.

Nell’immedesimazione, invece, si assume un pregiudizio favorevole sull’altro, in modo transitorio.
Per comprendere cosa si prova in una condizione sgradevole e indesiderabile si deve valorizzare la situazione in questione.

L’individuo viene concepito come degno e valido proprio in quanto persona che si confronta con l’invalidità e la mortalità, la sua esperienza viene valorizzata perché connotata da un senso e un valore. Da qui la possibilità di operare una “anticipazione terapeutica” diventando garanti dell’integrità del malato, perché anch’egli sperimenta in diretta ma rifugge dalla piena coscienza.

Il soggetto malato non vuole esserlo, non vuol subire la malattia da cui non può uscire, vorrebbe essere diverso da come è; quindi esiste un conflitto insanabile tra il voler essere (un vivente che vive) e il dover essere (la necessità di essere un vivente che muore).

Se non è mitigato da una prospettiva di sviluppo, tale conflitto crea una “crisi di presenza” perché una parte di sé viene alienata, per esempio quando si opta per essere soltanto un vivente che vive, pensando in termini di terapie e guarigione e negando la realtà negativa, quindi perdendo integrità.

Sovente supportare la persona nel ritrovare la salute non vuol dire che si otterrà la guarigione o si eliminerà il male, bensì che ci si riapproprierà della propria storia e dell’integrità in quanto essere umano, comprendendo nell’esperienza dell’umanità la malattia e la morte.

Se non ho incluso nella mia prospettiva esistenziale la possibilità di ammalarmi e morire, se non ho attraversato il deserto dell’isolamento e dell’alienazione della malattia, se non ho accettato di essere a mia volta “paziente”, non potrò proporre un accompagnamento paritetico, il riconoscimento del valore morale della condizione del malato grave.

Si apre un orizzonte spirituale in una visuale che non è per forza di cose religiosa, incoraggiando l’accettazione del proprio stato con uno sguardo rivolto altrove (senza invocare l’immortalità o l’eternità).

Si può convivere con il dolore e con l’idea della morte senza venir sopraffatti da emozioni negative, trovando una maniera di sperimentare shock, disorientamento, paura, con una capacità di compresenza. Convivere è di fatto inserire le tragedie inevitabili dell’essere umano nel percorso esistenziale.

Non si tratta di trovare risposte esaustive o valide una volta per tutte, ma di applicarsi di continuo ad un lavoro di comprensione per diventare tutori dell’identità del malato, pur quando nega o non vuol riconoscere la sua condizione in senso globale.

L’operatore e il volontario possono fungere da garanti della totalità dell’essere umano quando accettano di convivere dentro se stessi con l’idea della mortalità. Si rinuncia, certo, ad un pezzo di salute, o meglio si completa il concetto di salute con il suo complemento, visto che la malattia non è solo o semplicemente un nemico.

Le malattie sono sempre state reputate fattori di evoluzione, ambientale, sociale e persino spirituale, come mostra G. Groddeck nel romanzo psicoanalitico Lo scrutatore d’anime. Nella malattia c’è un fattore di crescita umana, cioè di umanizzazione.

L’identità e lo stile

Una concezione biologica e metafisica dell’uomo è essenziale quanto quella chimica e meccanica cui siamo abituati.

La biologia intende l’organismo in maniera unitaria e complessiva, la metafisica offre alla coscienza la trascendenza. Lo scopo ultimo, infatti, non è trovare una risposta, ma poter trascendere, cioè dare un significato e inserire in una prospettiva la propria esperienza di sofferenza inevitabile.

La malattia e la morte non possono e non potranno venir eliminate, benché un enorme impianto di divulgazione scientifica prefigura un futuro in cui non si patirà più, non ci si ammalerà e non si morirà.

Di ciò si risente molto nel rapporto medico-paziente, perché si verifica una collusione con le fantasie del malato sulla rimozione del lato oscuro. Quando lo smacco è evidente e non è più possibile far altro che stare accanto e parlare di ciò che si vive, il medico paga lo scotto di quel miracolo che ha lasciato credere potesse verificarsi.
Aver trascurato l’impegno ad educarsi alla convivenza si ritorce alla fine contro il malato e il medico.

L’uomo malato va concepito come un insieme che tenta di conservare la propria identità nonostante le condizioni avverse, infatti si può dire che ciascuno cerchi di mantenere il proprio stile in ogni circostanza, anche la più gravosa e terribile.

Il processo di adattamento dell’organismo a livello biologico e dell’individuo sul piano metafisico è unico e irripetibile. Tale sguardo unitario e d’insieme vede il corpo e l’uomo impegnati nella conservazione di un’identità sotto tutti i punti di vista (fisico, psichico, morale e spirituale).

Marguerite Yourcenar fa dire all'imperatore Adriano: "L'occhio del medico non vede in me che un aggregato di umori, povero amalgama di linfa e sangue” (Memorie di Adriano, 1951)
Al di là del riduzionismo o del meccanicismo, quel che domina la medicina odierna è la negazione dell’identità individuale.

Si fa di tutto per inquadrare il singolo in una sindrome, trovando qualcosa che ha in comune con gli altri, quegli elementi che consentono di raggruppare tutti coloro che presentano date manifestazioni. L’attenzione è per i sintomi e le patologie, l’oggetto di interesse è la malattia, non la persona.
Allora lottare contro la malattia fa confondere il serpente con colui che ne è stato morso. L’Aids è un caso eclatante del fenomeno.

Dinanzi alla morte dell’uomo ci mostriamo ingenui e finanche puerili, nonostante tutti gli artifici tecnici con cui sosteniamo la nostra grandezza. In effetti, c’è una componente esorcistica nell’avvicinamento ai malati inguaribili, il che vale per i volontari e per gli operatori sanitari: è l’altro ad avere in sé la necessità del morire ed io standogli accanto ho la garanzia che, almeno per ora, non toccherà a me. Il pensiero “meglio ad un altro che a me” non è mostruoso, rientra nel repertorio dell’umanità.

Se non si intende la persona quale organismo e totalità, si può incorrere nel contrario, cioè chiedere al paziente di essere tipico, un malato da manuale che soddisfi l’ambizione medica, lasciando solo l’individuo nel tentativo di restare integro.

Si aiuta a combattere le affezioni che affliggono il corpo, però non si fa nulla per il problema fondamentale di come restare se stessi nonostante le minacce e i fantasmi. Per questo è indispensabile un supporto all’identità.

L’identificazione inconscia è comunque attiva, gli “assistenti” hanno per forza di cose già conosciuto la malattia e la morte, direttamente o indirettamente nella sfera privata. La malattia e il male ci riguardano sempre, perché fingere allora di non saperne nulla e non averne esperienza?

La professione di aiuto non suppone il superamento di ciò di cui ci si occupa, se mai richiede una modalità particolare di farvi fronte unitamente a competenze acquisite con la formazione.

La persona malata ha bisogno di qualcuno che “sappia” e “sappia fare”, ma soprattutto di qualcuno che “sappia essere” e abbia trovato un modo per confrontarsi e dare significato all’esperienza in atto.

Umanizzare la medicina

Guggenbuhl-Craig insegna che non dobbiamo dimenticare le nostre ferite intime e la complementarietà dei ruoli di medico e paziente. L’antico detto natura sanat medicus curat ci rammenta che il medico può curare, ma è la natura a guarire.

Ciò che è "terapeutico" va molto oltre il ricorso a strumenti tecnici e interventi dall’esterno. In ogni essere è presente una profonda riserva naturale di energia che promuove identità e salute; quindi nel paziente esiste il medico, il “guaritore interno”, così come nel medico esiste il paziente.

Dobbiamo evidenziare le risorse laddove i limiti sono tanto espliciti e viceversa tener conto dei limiti in chi possiede o sembra possedere risorse. Fondamentale è ri-conoscere i propri limiti, professionali e umani.

Sovente il malato è capace di una dignità non comune ed è portatore di una umanità superiore a quella del sanitario. Non è questione di confronto o misurazione sul terreno delle competenze, piuttosto un paragone sul portato esperienziale, i mondi simbolici che le persone rappresentano.

Entriamo in un ambito in cui insieme all’orrore possiamo sperimentare meraviglia per le capacità altrui di affrontare situazioni per noi inimmaginabili. Ci accorgiamo di coloro che vivono in condizioni tragiche con serietà e coraggio, non senza paure bensì nonostante le paure, convivendo conservando la facoltà di pensare.

Non si può economizzare quando sono in gioco la vita e morte di un uomo. Non si può lavorare con opportunismo o comportarsi da parassiti nelle fasi terminali di una persona, che ha l’esigenza di arrivare a sciogliere dei nodi nella coscienza, mantenendo il proprio stile e la propria unicità.

Tutto un universo di vissuti e problematiche (psicologiche, relazionali, sessuali, affettive) viene disatteso od omesso con leggerezza. L’individuo deve accettare di vivere in stato si sospensione ed incertezza, facendo silenzio circa l’eventualità di un aggravamento e infine sbrigativamente morire e venir archiviato. Intanto deve affidarsi alla medicina che garantisce la dilazione della condanna o, e se va male, l’accanimento terapeutico.

Se far compagnia ad un malato di cancro sembra avere un senso, poiché la sua umanità non è messa in discussione, nel caso dell’Aids il degrado presupposto e la spersonalizzazione subentrante impediscono di solito proprio la prospettiva valoriale umana.

Se ne ricava l’impressione di un colpire alla cieca il malato, mentre la dimensione esistenziale scompare via via. In compenso si avvicinano filantropi e volontari, il cristiano che va incontro all’uomo nascosto nell’ultimo, nel reietto e nel peccatore, perché colui che ha sbagliato, si è perduto o è umiliato dalla malattia può aver bisogno di ritrovare Dio e il senso dell’esistenza terrena.

L’ospedale è il luogo in cui più trionfa la patologia e in cui più si amplifica per assurdo il tabù sulla comunicazione: non si parla del dolore, della malattia, della morte.

Se si accetta di passare attraverso l’inferno dell’invalidità e dell’impotenza, si può scoprire la via d’accesso al paradiso della convivenza, ove si acquisisce uno sguardo vivificato sulla vita umana, con un risveglio spirituale e la valorizzazione dei progetti a termine.

Basta che una sola persona riesca a con-vivere consapevolmente e in modo propositivo con una condizione che i più non riescono neppure a concepire, perché l’intero consorzio civile si ritrovi arricchito e cresciuto sul piano umano, anche se la maggior parte degli altri non lo sa e non lo saprà mai.

Una concezione adeguata della malattia favorisce l’emergere di persone integre ovunque. Nonostante i disagi fisici, il malessere psichico, il carico sociale, lo scoraggiamento del contesto di appartenenza, le disfunzioni delle strutture sanitarie, è possibile incontrare persone malate sopravvissute all’annientamento ontologico.

Esse vivono, scrivono, pensano, praticano a loro volta la solidarietà, assumono decisioni riguardo alla propria vita e alla propria morte, si pongono come interlocutori dei sanitari e delle istituzioni, e continuano ad amare.

La loro esperienza ci aiuta a credere nella umanizzazione della medicina per il tramite dei malati.

Affinché non soccomba sotto i colpi vibrati dal medico, insieme alla malattia, come troppo spesso accade, anche l’uomo.

Mattia Morretta
Titolo originale "Umanizzare la medicina: Il medico di fronte alla malattia e all'uomo malato"
Corso di aggiornamento per medici di base, USSL 44, Montichiari (BS), 30 novembre 1991
Pubblicato nel Quaderno di documentazione COAM n. 3, Comune di Milano, settembre 1993