Questione di stile L’arte di dire in A sud dell’Inferno di Claudio Giovanardi
• Lucia Libri 30 novembre 2022 “Mia parola, salvami!” L’invocazione di Ingeborg Bachmann in Discorso e diceria (1956) può forse riassumere il messaggio subliminale dell’opera di Giovanardi, pubblicata da La Lepre Edizioni nel novembre 2021. Perché in fondo l’unica via d’uscita dai gironi del materialismo in cui versa la condizione umana è l’ascesa in pallone aerostatico o l’ascensione a volo d’angelo, grazie a una formula magica verbale, il gioco di prestigio più patetico eppure più efficace di una specie evoluta in quanto parlante. Lettera di congedo dalla forza gravitazionale e dall’infimo, che aiuta a reggere la prova terrena alleggerendola, spinta uguale e contraria dal basso all’alto, leva per sollevare il mondo. “E così cominciò il conto a rovescio d’una storia altrettanto a rovescio. Era entrato in galera senza una causa, senza una prova, solo parole d’una ragazza plagiata. La moglie e l’amico avevano ordito un complotto, coinvolto la figlia, inventato accuse campate per aria. Il reato fu impietoso: violenza sessuale aggravata da incesto, non esiste reato più grave da poter concepire” (Pag. 138). La memoria corre in automatico all’affermazione più provocatoria di Wilde nell’aula di tribunale, cioè che non ci sono libri immorali, ma solo scritti bene o male. Rivendicando l’indipendenza dell’arte dalla società e dalle sue leggi, Oscar aveva purtroppo firmato la propria condanna. L’attitudine estetica è invero per definizione amorale (come notava Jean-Paul Sartre), il che spiega la frequente associazione tra creatività e licenza. Di converso Virginia Stephen (non ancora coniugata Woolf), per giustificare il suo accanirsi in una critica, considerava che chiunque è in grado di tirar fuori un romanzo decente e insulso, mentre occorre intelligenza per produrne uno davvero brutto.
Nel caso in questione, A sud dell’Inferno. Enigma in quattro quadri , è un testo che si impone sin dal principio per la qualità della scrittura, talmente buona e lontana dal calligrafismo da porre in secondo piano l’effettivo contenuto, la trama e l’ordito. A maggior ragion perché tratta di amor volgare e infamia, di avidità e rapine, soprusi, abusi e gattabuia, individui di piccolo calibro col sogno facile, vinti agevolmente dalle tentazioni e pronti a delinquere per inconsistenza. Una cura del linguaggio che rimette al primo posto la formazione dell’autore e di conseguenza del lettore, e che fa riassaporare il piacere dell’idioma italico. Potrebbe essere diversamente, avendo a che fare con un filologo membro dell’Accademia della Crusca? Lo stile, però, come avverte Virginia (rivolgendosi a Vita Sackville-West nel marzo 1926), è questione non tanto di mot juste, quanto di ritmo, la cui essenza “è qualcosa di molto profondo, ben più recondito delle parole”. Idee, visioni, emozioni generano un’onda nella mente che anticipa i termini adatti a esprimerla e che va ricreata sulla carta trovando il lessico corrispondente. Descrizione su misura per la sintassi di Giovanardi, che fluisce entro gli argini della pagina evocando il grande mare del senso figurato. La colonna sonora della pronuncia contiene, accompagna e sottolinea i fatti e i misfatti, gli istanti di estasi e gli interminabili giorni di prigionia, reale e metaforica. Il canovaccio attinge ad Ariosto, Tasso, la letteratura dell’Ottocento, il melodramma, le ballate, le rappresentazioni di pupi e marionette. S’ode l’eco di uno stornello romano di Nostra Signora Gabriella Ferri: “Alla Renella / Più cresce er fiume / Più legna vie’ a galla / Più ve rimiro / E più ve fate bella”. Non meno che di un madrigale di Monteverdi: “Sì dolce è il tormento / Che in seno mi sta / Ch’io vivo contento / Per cruda beltà”. L’autore va in cerca di personaggi che ne sollecitino e temprino il talento espressivo, sono variazioni sul tema del virtuosismo verbale, tutti, ignoranti e colti, poveri e benestanti, uomini e donne, intonano il canto della sua lingua madre. A mo’ di ventriloquo, senza darlo a vedere, mette in bocca a ciascuno il verbo giusto e la rima baciata, scende in cantina e nei bassifondi parlando come a corte o in salotto. Nel ribaltamento sopra sotto, presente passato, i quattro quadri in esposizione si susseguono al contrario, l’inizio coincide con le esequie del modesto illusionista Umberto Albani, il grigio travet pesciolino tra squali, improvvisatosi speculatore finanziario coi compagni di cella, infatuato della moglie fedifraga e a sua volta vittima di maleficio. Sovvengono i versi di Dickinson: Sentivo un funerale nel Cervello
e gente in lutto avanti e indietro andava
Poi spezzata un’asse nella Ragione
a precipizio cader giù, e ancora più giù
urtando un mondo a ogni crollo
e infine non saper più nulla
(n. 280, 1861) Le centonovanta pagine sono un compendio di narrativa e lirica, con citazioni disseminate nel giardino all’italiana (ad esempio, il motto di Teresa d’Avila “O patire o morire”), una caccia al tesoro per chi ha occhio di lince e orecchio allenato, dopo un po’ si perde il conto e si rinuncia a enumerarle, godendone e basta. Lo scrittore che ha ereditato il meglio della “tradizione” può infatti far dono del sapere custodito con zelo, essendo gli uomini soluzioni saline a differente grado di saturazione culturale (il sale in zucca). E tuttavia figure e vicissitudini non suscitano simpatia, anzi talora provocano ripulsa, restando in superficie pare uno spreco tanto bendidio letterario per vicende da bivio e da trivio. Senonché, si intuisce che lo scopo è enfatizzare la potenza della sorte, l’Ananke o Necessità che incombe sovrana persino sui tipi più comuni e insignificanti. Il pifferaio magico porta i topi dritto al precipizio, dipinge con gusto le “mosche ubriache costrette alla lotta dentro i margini opachi d’un bicchiere sbeccato” (Pag. 154), falene che si affannano impazzite intorno a una lampadina, andando incontro alla rovina prevista, predestinata. Perché la tragedia greca e i suoi temi universali sono riferimenti regali o nobili anche delle esistenze plebee: “Antonio tornò nella casa dove aveva prodotto lo sfascio, il macello, la carneficina, come un sordido apostolo appostato all’ingresso del tempio. La donna lo accolse nel letto, quel letto da cui, novella Giocasta, aveva cacciato il suo Laio meschino. Lui, la donna e Maria, tre sgorbi macchiati della stessa follia, tre corpi e uno spettro che vaga, che soffre, che invoca vendetta. Luigi, indossa la toga virile e renditi Edipo!” (Pag. 183). Mario Damosso, carcerato per stupro di due gemelle poco più che bambine, chiosa con cognizione di causa: “Ma è che talvolta le cose si spingono una nell’altra, s’incistano e a nulla conviene cercare di mettere ordine, sbrogliare grovigli, fermare la piena che allaga e distrugge argini e ponti. Si può essere assetati solo di bene e sfamati solo dal male” (Pag. 125). D’altronde, Alessandro Spina insegna che nel mito, nella favola, nel romanzo, si tratta sempre di discesa: “Tutte le storie sono di decadenza, almeno nell’età moderna”. Di maschi e femmine, grandi e piccini, ridotti all’osso non rimane quasi niente di buono, eccetto l’anelito amoroso, la tendenza all’adesione fisica e sentimentale tra poveri diavoli, l’affetto che idealizza pure i mostri e salva il salvabile di ciò che già inclina alla decomposizione. La passione dei sensi, testardamente attaccati alla vita, trascina lungo la china: “Seguire gli istinti, consumare gli istanti, accoppiarsi di dietro e davanti, ogni limite perso, un solo sentire fu misura costante: correre insieme in picchiata verso l’abisso, ficcarsi coi corpi infuriati a sud dell’inferno” (Pag. 178). E di nuovo torna utile l’idea sostanziale sottesa a Il ritratto di Dorian Gray di Wilde, cioè che, superato il pericolo dell’estetismo fine a sé stesso, l’arte aiuta a sublimare la materia in una “immagine” che immortala il miglior contenuto, mentre l’involucro originale invecchia, deperisce, degenera e trapassa. Nonostante selve oscure di peccati e vizi, orrori e supplizi, la fantasia umana sa creare con le parole magnifici fiori iridescenti per abbellire il vivere e adornare i sepolcri. Senza false illusioni, appena un purgatorio. “V’è un paradiso! - dicono le stelle:
ma dove? Ecco il problema, e qui il veleno”
(M. Lermontov) Mattia Morretta