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Transgender: La vittoria del Puer Aeternus?
Le identità sessuali alla deriva nel bicchier d’acqua dell’ideologia

• Feminist Post, 22 maggio 2023

L’ideologia transgender va oltre la rivendicazione transessuale della costruzione del sesso mediante sottrazione o addizione di qualcosa a partire da una matrice, perché contesta l’esistenza stessa del maschio e della femmina, e soprattutto della seconda, rendendo il genere femminile un prodotto di norme educative, bricolage o artigianato fai da te, negozio di estetica, laboratorio chimico, tavolo chirurgico. Entrambe si appellano alla “verità” della creazione onnipotente dei sessi, destituiti di effettiva realtà.

Le giovani donne in particolare sono purtroppo terreno fertile per ogni “genere” di masochismo e autolesionismo, perché subiscono il dettato della natura nella loro carne (mestruazioni, fecondità, aborto, deformazione e trasformazione del fisico) e sono tentate di ingaggiare una lotta di resistenza attaccando in primis il proprio corpo, o lasciare che venga saccheggiato e abusato. Inoltre essendo costrette a rappresentare la bellezza esteriore e la perfezione estetica, sempre sotto giudizio per dettagli, connotati, forme e volumi passibili di critica, il loro narcisismo somatico è precario e mai davvero confortato dallo specchio.

La diffusione del fenomeno “gender” nell’età adolescenziale esprime difatti in generale più il tentativo di sottrarsi al debito-onere biologico che non la sedicente flessibilità identitaria, perché si fonda sul bisogno di sentirsi disimpegnati rispetto alla natura matrigna, quindi di galleggiare e restare in superficie per evitare le correnti profonde e gli abissi, pretendendo che tutto nella sessualità sia sovrastruttura e non struttura portante.

L’identità di genere è del resto una questione esclusivamente “di testa” solo nella fanciullezza e nella pubertà, mentre in seguito diviene un processo unitario che coinvolge l’intera persona e la personalità. A differenza della visione ideologica della problematica, non si ha a che fare con la volontà razionale, il transgender non è affatto artefice di sé stesso, se mai è succube di uno “spirito” totipotente, che reclama fisionomia e anatomia a sua immagine, schiavizzando mente e psiche.

Un’espressione di concretismo e una riduzione all’assurdo per eccesso di semplificazione, una forma di possessione o di automazione che fa presumere di essere padroni della sfera sessuale, tanto che al riguardo verrebbe da utilizzare la formula dell’esorcista: “Esci da questo corpo!”. Una credenza/credulità che mantiene l’impianto infantile delle fantasie sul sesso, sul quale nulla possono la ragione e l’evidenza, mentre prevale il copione: a furia di recitare una parte si finisce per farne una “natura”.

Anche per chi ne subisce il fascino o ne prende le difese “per principio”, vedendo nella stagione infantile soltanto bontà di intenti e positive potenzialità, l’importante è quel che appare, cioè che l’individuo sembri una femmina e/o un maschio, si atteggi a tale nello spazio sociale (agli occhi della gente), non tanto cosa sia (sotto sotto), oppure l’inverso, basta che non sia una donna o un uomo in carne e ossa. Conta dunque che la superficie non nasconda e non contenga la profondità, significati e contenuti intollerabili e angoscianti a livello cosciente, con viraggio da sogno a incubo.

Sicché si vogliono confondere le carte dei generi, mescolarle a caso, rendendo anche l’accoppiamento un intrattenimento consolatorio, come farsi un goccetto e veder doppio. A conti fatti però pure i più estremisti non possono che pasticciare con i materiali di base forniti dalla natura, con limitati margini di manovra che per lo più consistono in variazioni di dosaggio dei caratteri sessuali primari e secondari, ormoni, parti anatomiche, taglia e cuci grazie a tecnologie, industrie farmaceutiche e carte di credito.

I fautori del “genderismo” vogliono riscrive ex novo la storia della sessualità, vanificando il passato e rileggendolo alla luce di un presunto sol dell’avvenire, che è un oscurantismo culturale mal dissimulato, vero rovesciamento della medaglia del dettato ottocentesco borghese. Vorrebbero far imparare a memoria le filastrocche e le frasi fatte del regime dell’inversione di senso, puntano senza mezzi termini a indottrinare, addestrare, dettar legge, agendo da funzionari del nuovo ordine, esattamente con gli stessi metodi e ricorrendo alle tecniche del consenso sviluppate nel Novecento, che prevedono sfruttamento intensivo dei media e dei contesti in cui si forgia l’opinione (compresi quelli pedagogici).

Sono agenzie (dis)educative che competono con gli avversari confessionali per avere il controllo sull’età dello sviluppo, altrettanto interessati a imporre una visione unilaterale dell’essere umano e della socialità. L’obiettivo è esercitare potere sulle masse concepite come “minori” da guidare, influenzando e condizionando con adeguate pressioni la (de)formazione delle nuove generazioni. Tutti si sentono esecutori di un disegno superiore di progresso (ideali politici o religiosi) e hanno bisogno di convincere gli altri per avvalorare il convincimento da cui sono dominati.

Il genderismo in fondo non è che una protesta in differita contro l’imposizione di modalità di espressione dell’individualità e della sessualità, divulgate e globalizzate nella cinematografia e nella pubblicità a partire dagli anni Cinquanta soprattutto negli USA. In pratica l’onda lunga della reazione alla teatralizzazione delle differenze di genere (acconciature, abbigliamento, trucco, pose e atteggiamenti), che in un primo periodo era stata rappresentata dall’unisex.

A dire il vero, il protagonista del film cult degli anni Settanta Rocky Horror Pictures Show era un’icona dell’onnipotenza maschile più che della bisessualità, e se mai della bisessualità come espressione di superpoteri e non di attrazione sessuale (il soggetto al contempo oggetto di sé stesso e gli altri coreografie o cornici). Nella moda l’ex-unisex è già da tempo giunto al non gender, unica differenza la taglia, per scarpe e abiti, versione trendy dell’uniforme scolastica e militare.

I film d’animazione, specie giapponesi, sono altresì antesignani dello scambio di corpo e di persona, alias fluttuanti, reincarnazioni su misura per ragazzini in fase cosiddetta evolutiva senza alcuna intenzione di maturare e arrivare al traguardo. Se un tempo c’erano i maschi e le femmine di casa, a breve saranno familiari ovunque i replicanti dell’ambiguità obbligatoria.

Nel transgenderismo non si assomma il meglio dei due sessi, se mai si riducono i due generi a un sesso minimo. La verità è che una soggettività labile, addirittura gassosa e volatile, è indifferenziata o evanescente per ristagno adolescenziale, e cerca disperatamente fisionomie, travestimenti, maschere, ma non riesce a prendere e trovare una Forma, fingendo una libertà di espressione e di autodeterminazione che non possiede e che non esiste.

Si pretende così una moratoria dell’identità, una sospensione sine die che impedisce di sperimentare seriamente e fare scelte ponderate, determinando la formazione di una palude psicosessuale e infine di sabbie mobili letali. La fluidità dichiarata e premiata da stampa e social è infatti un cocktail di idiosincrasie, capricci, sensitività e spiritismo, fobie, paranoie e fantasmi, un bicchiere in cui si rischia di perdersi e annegare, non c’entrano orientamento, preferenze, affettività, legami interpersonali.

E il movimento gay che sostiene il successo di tale simulazione puerile pare non rendersi conto che è proprio l’identità omosessuale a far la fine peggiore. Il superamento del genere o dei generi, a favore di variazioni arbitrarie sul tema da recitare a seconda dell’umore del momento, vanifica anche le relazioni omosessuali, non solo quelle eterosessuali, con buona pace dei fautori dei diritti civili per le minoranze (matrimonio tra pronomi neutri). Così è se vi pare.

Mattia Morretta