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La dimensione psicologica dell’AIDS
Università degli Studi di Milano, Scuola di Specializzazione in Psichiatria, 1987

Le relazioni

I cambiamenti sul piano dei rapporti interpersonali sono tanti e talora drammatici. A parte i casi in cui amici e familiari reagiscono negativamente, il paziente è comunque esposto alle conseguenze della paura della morte e del contagio fra le persone che gli sono vicine.

Gli amici sviluppano una super-identificazione col malato, visto che sovente condividono con lui la fascia di età, gli interessi e le abitudini di vita. Ciò stimola in loro un senso di vulnerabilità e fragilità che può portarli ad evitare o ridurre il contatto con quello che essi vivono come uno specchio o un segno profetico di ciò che li attende in futuro.

D’altra parte, ci sono poche altre cose dolorose quanto il veder morire chi si ama. Questa sofferenza viene avvertita anche dal malato che se ne sente in parte responsabile.

I partner dei pazienti possono sentirsi letteralmente sconvolti dalla perdita inevitabile e dal modo in cui essa avviene. Qualche volta reagiscono con paura e distacco, sentendosi minacciati dal pericolo di finire altrettanto male e di venire, per così dire, trascinati nella fossa dal compagno.

Benché il dolore accomuni, incomprensioni e conflitti preesistenti possono venir acuiti dalla situazione tanto drammatica e stressante. Rivendicatività e sensi di colpa (per esser stati contagiati o aver contagiato) possono inquinare una comunicazione già sufficientemente problematica fra i partner.

Genitori e parenti si trovano a combattere fra il desiderio di stare vicini al congiunto e l’esigenza di difendersi dall’ostracismo sociale. La difficoltà di spiegare ad altri ciò che accade, il timore di non esser compresi o addirittura di essere considerati malati a loro volta, la sgradevole sensazione di aver paura del contagio nonostante il bagaglio di informazioni e la volontà di aiutare fino alla fine il malato, rappresentano problemi che influenzano pesantemente il rapporto diretto fra i familiari e il paziente. Questi, infatti, non ignorano il fatto di costituire un grave peso per i congiunti, di cui individua i tentennamenti e le ambiguità affettive.

L’impotenza avvertita al suo massimo grado da tutti coloro che sono prossimi al malato, induce sovente aspettative irrealistiche o un attivismo spropositato per un meccanismo di compensazione che può al contrario peggiorare la situazione di entrambi.

La qualità della vita

Le alterazioni nella qualità della vita sono notevoli. La disorganizzazione nelle abitudini conduce ad una esperienza di “bancarotta”, tutto è perduto improvvisamente e brutalmente. Niente di ciò che prima aveva un senso ed un valore, di ciò che costituiva il mondo quotidiano di gesti e atti rassicuranti, sembra reggere di fronte alla violenza di una diagnosi che pare una sentenza di morte fisica, psichica e morale.

Anche quando il prossimo non si ritrae, è spesso l’interessato ad isolarsi dai consueti contatti, nel tentativo di trovare rassicurazione in uno spazio, fisico e mentale, ristretto, quello che egli ritiene compatibile con la sensazione interiore di vulnerabilità e impotenza.
Gli spazi “aperti”, infatti, aumentano il pericolo di aggressione e frustrazione, mentre un territorio piccolo viene difeso meglio!

Facilmente sorge il disgusto o l’insofferenza per il lavoro, il che porta a preferire di rimanere a casa e a sottrarsi ad impegni vissuti come troppo gravosi o oramai inutili. La stanchezza fisica riduce la partecipazione all’attività professionale e alla vita sociale.

La limitazione drastica o l’assenza di pratiche sessuali, il rifuggire dalla rete interpersonale pur superficiale, la paura di essere rifiutati ed esclusi affettivamente e sessualmente, configurano la perdita di tutta una serie di situazioni definite “sfoghi sociali”, la cui utilità in genere è proprio quella di permettere la compensazione delle frustrazioni e lo scarico di molte tensioni esistenziali.

La caduta dell’autostima è per questi soggetti vertiginosa. I significati attribuiti socialmente all’Aids, una sorta di stella gialla che identifica i paria (come ha scritto J. Leibowitch), inducono un grande sentimento di colpa e una sensazione di “sporcizia”, che non è solo morale ma addirittura fisica. Del resto, la stampa ha sovente descritto i malati come “nuovi lebbrosi”.

Il dialogo interno si appunta su questioni del tipo “cosa ho fatto per meritarlo?”, cui consegue l’affioramento dell’omofobia interiorizzata, nel caso dei gay. Sicché la causa della malattia viene individuata molto spesso nella stessa preferenza sessuale: “Ho l’Aids perché sono gay”. Da qui partono esercizi di patteggiamento e propositi riabilitativi del genere “se guarisco, righerò dritto, cambierò il mio orientamento sessuale”, eccetera.

In ogni caso, emerge una feroce autocondanna a proposito del vivere in modo “dissoluto”, “sulla corsia di sorpasso” come dicono gli americani, che hanno paragonato lo stile di vita di un certo tipo di gay alla guida a 120 Km/h in stato di ubriachezza.

L’autostima è inoltre ulteriormente indebolita dalla visione di sé come un “pericolo” per gli altri, e non solo nella sfera sessuale, poiché vengono temuti anche i gesti di affettuosità fisica e i normali contatti quotidiani.
L’idea di portare con sé e in sé (nel sangue, nello sperma, nel corpo in generale) un nemico invisibile ma potente, non può che spingere la persona a sentirsi una sorta di mina vagante, forse un “mostro”.

Emozioni negative

L’assenza di passatempi, distrazioni, abitudini, lascia un vuoto viene riempito da pensieri ripetitivi, ossessivi, ruminazioni sulla morte, sui sintomi e la malattia.

Il paziente è soggetto a frequenti fluttuazioni dell’umore nel corso della giornata, persino di ora in ora; con facilità passa dalla stizza alla colpa, dalla collera alla depressione, dalla paura al pianto.
Si è parlato di effetto “montagne russe” per descrivere l’alternarsi di alti e bassi, cioè dei momenti in cui il soggetto sembra pieno di speranze o sereno a quelli in cui completamente e irrimediabilmente disperato.

Del resto, questa rapida alternanza di stati emozionali segue anche le modificazioni delle condizioni fisiche, i referti medici e gli esami di laboratorio, nonché le notizie della stampa.

La collera costituisce un sentimento particolarmente importante e onnipresente. Motivi ve ne sono tanti per essere adirati. Innanzitutto, è forte la sensazione che la vita sia stata e sia crudelmente ingiusta. Inoltre, la rabbia trae origine dalle concrete frustrazioni quotidiane cui l’individuo è esposto. Le sue richieste di risposte e trattamenti efficaci non sono mai soddisfatte dai risultati e dalle notizie.

La disorganizzazione e le carenze del servizio sanitario sono facile alimento per critiche spietate e in gran parte giustificate, dal momento che i pazienti “diversi” pagano in più sulla loro pelle anche il disorientamento e l’impreparazione del personale sanitario nel trattare con tali soggetti.

Le recriminazioni sono comprensibili per la percezione di sé quali vittime dell’establishment medico. Non è solo questione di generico “vittimismo”. Basti pensare che, a parte le regole applicate talora troppo rigidamente per evitare il contagio, in molte occasioni il personale di cura ha dovuto essere reclutato per cambiare i letti, preparare i pasti, fare prelievi di sangue e persino dialogare con i pazienti.
Non è certo semplice accettare il proprio stato, quando l’unico contatto umano è quello con infermieri con sopra camice, guanti e mascherina. C’è di che adirarsi, e disperarsi.

Alle spalle, in effetti, alcuni hanno abbandoni da parte di amici e parenti, che li gettano nel panico e in un vuoto di riferimenti affettivi cui le rivendicazioni cercano di trovare una compensazione.
L’atteggiamento da parte della stampa, sensazionalistico e spregiudicato in molte circostanze, non si può che umiliare e stimolare reazioni di rabbia in chi già soffre per l’incapacità di mantenere il controllo della situazione e delle emozioni.

Il malato, effettivamente, sperimenta un senso generale di mancanza di controllo sulla malattia, il corpo, la vita. A ciò contribuisce la carenza di piani organici di trattamento, ma esso viene rafforzato dall’atteggiamento dell’ambiente medico che tende a ridurre il paziente nel ruolo di malato passivo e indifeso, consegnato nelle mani della scienza, che tuttavia non ha a sua volta abbastanza controllo e potere sulla malattia.

Nello sforzo di sentirsi protagonista della sua condizione, il malato di Aids può cominciare una via crucis di consulti, in cui arranca da un medico all’altro con la segreta o scoperta speranza di vedere sconfessata la diagnosi. L’impotenza gli fa avvertire l’urgenza di scegliere un trattamento, magari alternativo alla medicina tradizionale, di chiarire la situazione, voler sapere tutto; al contempo, però, lo costringe a sentirsi perduto nonostante ogni tentativo di essere attivo.

Mattia Morretta (1987)