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Essere o ben-essere

Il benessere estetico socialmente approvato fa ritenere superfluo il benessere etico, cioè il «ben essere», il rapporto che la persona ha con se stessa su un piano morale. La rinuncia a tale dimensione della sessualità spinge a cercare grandi emozioni e grandi entusiasmi sensoriali, veri e propri bombardamenti emotivi, allo scopo di amplificare la sensazione di essere vivi.

A conti fatti c’è un difetto centrale di vitalità che si cerca di compensare con un aumento dell’intensità dei contatti e degli stimoli che vengono dalla periferia. Ciò che si vuole scongiurare è il cadere nell’angoscia e nella violenza di cui si è pieni e da cui si è terrorizzati.

Non si è colpevoli di questo stato di cose, ma senza un riconoscimento di responsabilità non c’è possibilità di libertà.

Il male è appeso alla libertà, non solo alla necessità. Se ci fa orrore, è proprio perché possiamo ipotizzare che potrebbe non esserci, poiché se fossimo convinti che c’è in assoluto, senza alcuno scampo, non ci susciterebbe tanto orrore. Non è un caso che oggi non ci si spaventi più di niente, che quasi nessuno provi più orrore di fronte al male dell’uomo sull’uomo a cui tutti si sentono autorizzati.

Essere consapevoli della propria natura e di quale sia il patrimonio di distruttività e di aggressività che ci si porta dietro è necessario per poter tentare un processo di trasformazione e non per legittimarsi. Quante volte la conoscenza di queste verità sembra essere una sorta di legittimazione dell’egoismo più spietato e arrogante (“ho bisogno di qualcosa, la prendo; sento degli stimoli, devo assecondarli”)?! Gli altri non servono che a reggere uno specchio o a fungere da strumenti.

Ogni qualvolta l’altro manca quale interlocutore o non gli è consentito di svolgere tale ruolo, siamo noi ad impoverirci e a trovarci ridotti sempre più al narcisismo, ad una specie di autocrazia in cui alla fine noi siamo al centro e tutto il resto è contorno; il che riproduce nella vita adulta una situazione di tipo «infantile», per cui pare che il mondo esista per noi invece del contrario.

A quel punto si cerca di soddisfare quelle che sembrano esigenze personali e che non sono neppure veri interessi bensì solo appetiti, perché gli interessi presuppongono l’autocoscienza e la scelta.

Un adulto dovrebbe poter essere in grado di contrattare, non in senso fiscale bensì secondo una logica umana, cosa intenda fare nella sua vita sessuale, a quali condizioni stabilire dei rapporti, con quale grado di comunicatività; dovrebbe sapere in anticipo che per avere certe cose dovrà darne in cambio delle altre, valutare il prezzo in termini emotivi o di sensi di colpa, per esempio, se decide di mettere in atto alcuni tipi di condotta.

Non si può ragionare nella logica del “pentimento” di chi prima commette peccati e poi cerca la assoluzione o la punizione per rendere nullo il gesto compiuto e ritornare al punto di partenza, senza mai scegliere le azioni da compiere.

Spesso vengono spese nella vita di relazione parti di sé che sono dei rami secchi senza speranza di fioritura, mentre magari altre vengono private di attenzione, lasciate incolte e incomprese. La sessualità di un adulto dovrebbe essere propria, cioè suo canale di espressione e creatività. Essendo in gioco una parte molto importante della realizzazione, si dovrebbe pensare nell’ottica di un investimento attivo e proficuo.

Quanti invece pretendono di essere amati senza rendersi amabili! Quanti non si amano, non si accettano, hanno su di sé solo convinzioni negative, eppure pretendono che gli altri compensino questa mancanza di amore o dimostrino loro che sono amabili, senza dover fare il minimo passo in quella direzione e senza mai prevedere reciprocità o scambio.

Volere amare o volere essere amati non significa volere una relazione con l’altro; si tratta semplicemente di una esigenza legittima ma insufficiente per sostenere la vicinanza con un’altra persona in carne ed ossa, alla quale riconoscere un narcisismo almeno pari al proprio.

Non bastano buoni propositi. Molti pretendono la gratificazione di un bisogno e la compensazione o il risarcimento di un affetto che non provano per se stessi o che non vogliono provare; se questo è vero occorrerà darsi da fare per rendersi amabili e per consentirsi esperienze più positive.

Sarà un lavoro che richiederà magari dieci anni, anche se non se ne hanno a disposizione così tanti, ma non importa. L’importante è andare nella direzione giusta, quella che porta al centro di se stessi, per poter prestare cure e attenzione alle proprie ferite. È una scelta di coscienza e di autonomia, perché si decide di cominciare da sé a realizzare l’operazione di ricostruzione di un senso e di riconciliazione.

Quando siamo incapaci di amicizia o addirittura abbiamo un nemico interiore, un rapporto persecutorio con noi stessi, è assurdo pretendere di poter avere relazioni amicali, cioè che dall’esterno provengano quelle dimostrazioni di affetto, di stima e di riconoscimento che poi in effetti non si è in grado né di contraccambiare né di vivere in prima persona.

È difficile accettarsi con tutti i limiti, le miserie e le povertà presenti in tante aree della propria personalità o con tutte le privazioni della propria storia. Non è facile fare i conti con il destino personale. Per quanti sforzi si facciano, si resta in una prigione, che non può essere mai del tutto abbandonata; si può dipingerla d’oro e decorarla, non uscirne.

Riconoscere la prigione è tragico, significa prendere coscienza di quel che davvero si può fare rinunciando alle fantasticherie. Si può costruire qualcosa solo a partire da quel che c’è nella realtà, dalla propria autentica condizione. Il disprezzo e la mancanza di stima personale si riverberano nelle relazioni e non potrebbe essere altrimenti.
Non si diventa migliori affidandosi a fantasie di grandezza e di salvezza. C’è chi auspica una giustizia retributiva, in base alla quale chi non ha avuto dovrebbe avere; al contrario, di frequente a chi non ha viene tolto anche quello che ha... È il rapporto con se stessi quindi la variabile su cui poter intervenire per produrre dei cambiamenti. Vanno perciò abbandonate tutte le illusioni riguardo alle relazioni sentimentali e le aspettative gratuite di gratificazione.

Jeanette Winterson nel romanzo Non ci sono solo le arance mette in guardia ironicamente contro le insidie del sentimento riferendo un gustoso episodio paradigmatico. La madre della protagonista racconta di essersi lasciata andare al primo amore in virtù del grande fermento interiore provato nei primi incontri. Recandosi in seguito dal medico aveva scoperto di essere affetta da un’ulcera, e allora la morale è: «a volte quel che credi sia il cuore potrebbe rivelarsi in realtà un altro organo».

La gran parte delle persone è convinta che i sentimenti provati siano comunque espressione della dimensione affettiva e della parte migliore di sé. Certo, ciascuno è in via di principio dotato di propensione all’amore, come possibilità e non capacità già data. Tanto che in certe situazioni l’amore bisogna cercarlo al microscopio, a meno che non si accetti di chiamare in tal modo il sentimentalismo a buon mercato.

È importante capire da quale organo partano il sentimento, l’entusiasmo, l’emozione, nonché di cosa si abbia effettivamente bisogno. Altrimenti si costruiscono rapporti che rischiano di approfondire il solco del vuoto e delle difficoltà, perché si scelgono le persone sbagliate per la propria evoluzione, benché giuste per il proprio difetto. Ne viene confermato il circuito perverso, perché sono partner appropriati da punto di vista della malattia e non dal punto di vista della potenziale salute e del cambiamento.

Altre volte si individuano le persone «giuste», ma poi si distruggono le opportunità di collaborazione per una vita migliore. Si scopre allora che, nonostante il gran parlare di infelicità, la felicità è vietata, il soggetto può vivere la felicità solo idealisticamente in alcuni castelli creati ad arte.

In ogni caso, anche quando va bene o benissimo, le ferite non vengono «compensate». Lo esprime con grazia Federico Garcia Lorca nella poesia Verso: «e dirai amore, amore! / senza che la tua ferita/ si risani». Le ferite non verranno mai guarite, eppure è importante conoscerle, perché altrimenti se ne è condizionati solo in modo negativo, mentre, grazie alla consapevolezza, si può sperare di organizzare un lavoro di crescita, di accompagnamento affettivo per se stessi verso altri tipi di esperienze, più umane nel senso positivo del termine.

L’aspirazione al benessere etico o a un buon rapporto con se stessi dà soddisfazione e si traduce in relazioni migliori. La stima per me stesso ingloba gli altri, perché ogni mia esperienza è qualcosa ch’io intendo valorizzare, facendone un uso costruttivo e non distruttivo, che mi elevi e non mi degradi. A livello interpersonale l’attribuzione di credito e stima dipende dal grado di autostima.

La disistima personale porta anche alla disistima dell’altro, come chi teme di essere disprezzato spesso ritiene di doverlo essere. Nessuno per certi aspetti sa meglio di noi quali siano le nostre nefandezze e le nostre miserie, perciò si può temere che vengano colte dagli altri nell’avvicinamento al nostro territorio.
È opportuno partire dall’idea che anche l’altro sia potenzialmente capace di autostima e di responsabilità.

Se sono il primo interlocutore di me stesso, è più facile che cerchi nell’altro un interlocutore adeguato, quindi che lo ponga ad una certa distanza, su un piano diverso da quello delle manipolazioni e dell’uso distruttivo. La distanza non è la freddezza della lontananza siderale, in cui è impossibile ogni forma di contatto; piuttosto è quello spazio connaturato al confronto tra due identità sufficientemente distinte pur se non del tutto definite.

Le identità constano di una parte fissa, che rimane stabile nel tempo, e di una parte che, grazie alla flessibilità, resta mutevole e dinamica, altrimenti c’è il rischio della fossilizzazione e della mummificazione. Una componente deve restare costante come segno della distinzione dell’individuo, l’altra deve essere aperta ai cambiamenti per poter evolvere e migliorare.

La consapevolezza di sé per entrare in intimità con le altre persone è un requisito fondamentale. È inutile concentrarsi su esperienze di risveglio fisico o sensuale, corsi di bioenergetica e simili. Solo se si mettono in gioco le periferie collegate ad un centro se ne potrà ricavare un vero beneficio.

Abbiamo bisogno di piacere corporale nell’esistenza, perché non siamo scissi, bensì un insieme di elementi fisici, psicologici, emozionali, culturali e spirituali, e siamo vivi solo mediante il corpo. Non c’è niente, tuttavia, di più consolante, del sapere di essere dentro se stessi, cioè di abitare e avere una casa al proprio interno.

Si può essere confortati dagli abbracci altrui, dalla tenerezza fisica e dalla fusione sessuale, ma abitare la propria interiorità e potere dimorare nella più profonda intimità è senz’altro una delle esperienze più rassicuranti che esistano.

Quando il ruolo svolto dal corpo e la sua possibilità di trarre piacere dall’esistenza si ridimensionano per forza e drasticamente, chi si è concentrato molto nelle proprie periferie si trova enormemente svantaggiato poiché non gli è più possibile un’identificazione positiva con se stesso.

Chi si è dato molto da fare per il narcisismo esteriore, appena perde il treno della salute apparente e materiale rischia la disintegrazione, perché il suo nucleo interiore è fragile, denutrito, oppure pieno di angosce o cose sgradevoli. Non poter restare soli con se stessi è un grande svantaggio nella malattia, non nel senso dell’autosufficienza fisica ma nel senso dell’opportunità di guardare verso l’interno e farsi compagnia, prendendosi cura delle piccolezze e dei limiti, comprendo gesti di accettazione che riguardano le ferite.

Tale compagnia è ben diversa dal rigirare il coltello nella piaga dei tanti che nelle delusioni sentimentali e nelle sventure alzano un lamento sterile, per coprire la non volontà di apprendere da quel che si è vissuto, con la scusa dell’assenza di prospettive e di garanzie.

Diventare capaci di passare dagli appetiti agli interessi e volere integrare la propria sessualità comportano l’accettazione del pagamento dovuto e naturale per ottenere la soddisfazione. Sicché, la questione è diventare capaci di (re)stare nella realtà. Illudersi di essere normali non annulla la condizione oggettiva di fondo, l’unica base sulla quale sia possibile costruire una relazione; se no, si gettano ponti che non esistono invitando gli altri a passarci sopra. I ponti vanno costruiti e voluti, presuppongono un impegno molto duro, comportano sofferenza, non c’è altra strada e persino l’idea della colpa può essere utile.

Pensiamo al romanzo di Nathaniel Hawthorne La lettera scarlatta, in cui la protagonista deve portare sul petto una lettera “A” come condanna per l’adulterio. Passando attraverso solitudine, vergogna, disperazione, ella arriva a coltivare una possibilità di essere e di ricostruire l’esistenza che invece è negata all’amante ipocrita e pavido, via via consumato da una colpa nascosta. Il trauma può diventare un fattore di identificazione, un elemento di ri-strutturazione in quanto "centro".

Persino l’Aids finisce per rappresentare un’opportunità di identità anche laddove non ce n’è mai stata una, offrendo un centro organizzatore, grazie al quale mettere ordine e ripartire. Succede nei casi fortunati, per cui nell’individuo, che non aveva mai avuto una bussola, avendo vissuto letteralmente allo sbando in un’esistenza non propria, improvvisamente, attraverso la scoperta della malattia e la presa di coscienza, comincia a prender forma un centro e in rapporto ad esso una forza di gravità e un pianeta.

La mancanza di un centro impedisce la progettazione e la programmazione, nonché l’assunzione di responsabilità. Per questo le identità sono molto importanti, identità fondate su aspetti determinanti della propria vita, ed è per questo che rifiutando di riconoscere la propria diversità, molti si privano dell’unica occasione a disposizione per elaborare un progetto e costruire in relazione ad un centro forte.

È necessario sviluppare la capacità di soffrire in funzione di uno scopo utilizzando la sofferenza per la propria realizzazione. Per certi aspetti si può dire che non è mai tardi, che si può cominciare a vedere anche quando si diventa ciechi. Si tratta di scegliere di essere dentro la realtà e di riconoscersi per quello che si è. Applicarsi alla generazione della propria identità è un lavoro vero e proprio, a cui bisogna dedicare tempo, sottraendolo ad esperienze di divertimento e di svago.

Orientarsi verso la propria centralità, l’identità di persona, per tentare di risanare quel che è possibile o soltanto di capirlo, è una decisione importante e di per sé salvifica. Raccontarsi la propria storia, fare attenzione a quello che si è vissuto è a volte il solo gesto che la persona può fare per uscire dal circolo vizioso del male.

L’amore buono è quello che promuove il nostro valore e ci protegge dai nostri stessi attacchi. Esso produce un’opera di purificazione e chiarificazione dell’oscura nebbia negativa che circonda l’essere. Può accadere nelle relazioni terapeutiche di aiuto, in cui chi è accanto fa un’operazione pregiudizialmente positiva di amore nei confronti dell’altro, lo ritiene capace di bontà e lo aiuta a liberarsi dalle sue critiche distruttive.

Si creano così condizioni per sperimentare una possibilità di amare se stessi e quindi di rivolgersi agli altri con atteggiamenti più costruttivi e positivi, superando la posizione di attesa passiva della gratificazione sentimentale e sessuale.

Per realizzare concretamente tale progetto ciascuno deve riuscire a individuare gli interlocutori giusti, le strategie più opportune, persino i contesti adatti. Le risorse sono spesso più vicine di quanto si creda, basta valorizzare e dare consistenza ai rapporti esistenti in quanto occasione di conoscenza e di arricchimento.

L’identità è una scelta di autoriconoscimento, nella quale si decide di avere con se stessi un rapporto particolare e si fa del desiderio di cambiare un vero catalizzatore dell’intero potenziale di desiderio, qualcosa di voluto intensamente come una forma di libertà. È la liberazione dalla schiavitù di un destino solo negativo o di un passato pieno di fallimenti, dall’impossibilità di sorprendere se stessi, di stupirsi con dei gesti mai fatti, con cose mai dette, con azioni impensabili in precedenza, entrando così nella dimensione della possibilità.

Niente di nuovo è davvero possibile, se non c’è il senso della realtà. Con la realtà oggettiva bisogna seriamente fare i conti perché tutto quello che si costruisce al di fuori di essa prima o poi svanisce, crolla a terra rovinosamente, anche dopo anni; ogni identità edificata sull’apparenza e sull’immagine ideale di sé è destinata al fallimento.

La gran parte delle persone ha paura di star dentro la realtà, la ritiene solo punitiva e non riesce ad accontentarsene. Chi possiede il senso della realtà ha anche il senso della possibilità e può diventare creativo, ovviamente in grado diverso per ciascuno, perché esistono differenze notevoli e inevitabili di dotazione e talento.

Nel contesto della malattia e del disagio è importante fare distinzioni per capire quale esperienza potrebbe essere più produttiva per uno specifico soggetto, di quale sofferenza avrebbe bisogno, quella sofferenza che consente di arrivare al cuore di se stessi e di prendersi sul serio.

Come si può avere a cuore la vita degli altri quando non si riesce neanche ad avere a cuore la propria? Anche coloro che passano sopra a se stessi per il bene degli altri, si illudono di poter soprassedere sulla questione del valore reale della propria vita, del suo prezzo e del costo dell’amore.

Vivere in maniera dignitosa coltivando una relazione positiva con se stessi e il mondo è un impegno oneroso. Il tempo da destinare a se stessi non può essere speso in altri modi, va dedicato esclusivamente alla conoscenza venendo a patti con i fantasmi personali, arrivando a confrontarsi con l’uomo sotteso al personaggio magari tanto affabile e seduttivo. Se temo di fare sul serio con me stesso, cercherò sempre di evitare che lo possano fare gli altri.

Sono autentici solo i rapporti tra persone che scelgono e accettano di essere presenti onestamente e in modo realistico. Molti non hanno rapporti personali perché non ci sono, al loro posto c’è una contro-figura, l’attore su cui hanno investito enormi energie nel corso del loro presunto sviluppo.

L’amore non può essere dato per scontato, ha bisogno di essere dimostrato in ogni caso, mettendo in discussione tutta la mitologia e i luoghi comuni sul sentimento. Bisogna chiedersi se una relazione possa migliorare la vita oppure no, perché l’alibi del «ti amo da morire» conduce ad accettare vincoli degradanti fondati sul martirio o sul sadomasochismo morale.

Quel male d’amore di fatto non costa niente perché già previsto nel copione, non ha un prezzo esistenziale vero perché è soltanto il riciclaggio di un dolore scaduto, quindi l’individuo era già sacrificato precedentemente una volta per tutte.

I dettagli concreti della vita sessuale, le precauzioni, quel che si è disposti a fare nel sesso, sono tutte cose secondarie: quando la persona è diventata capace di fare una scelta, allora agirà anche di conseguenza da questo punto di vista.

Non c’è bisogno di dimostrare la propria disponibilità o l'interesse per il partner con delle concessioni nella pratica sessuale, per esempio non saranno i millimetri di profilattico a impedire la vicinanza di due persone, o la fusione esistenziale e psicologica.

C’è bisogno del coraggio di guardarsi dentro, di guardarsi in faccia e di guardare anche gli altri con uno sguardo a cui non ci si può sottrarre, che inchioda letteralmente alle pareti, per riconoscersi davvero come esseri umani, con tutto ciò che sappiamo sulla umanità. Questa consapevolezza reale è ciò che consente di costruire qualcosa di buono pur senza garanzie di successo o di immortalità.

Dobbiamo giungere a coniugare responsabilità e destino. Chi non accetta la responsabilità preferisce pensare che niente dipenda da lui. Chi enfatizza la responsabilità la trasforma in una forma di onnipotenza credendo di essere l’unico padrone del proprio destino, quindi alla fine si mette al posto di Dio: «sono l’unica causa di me stesso, tutto dipende da me».

Guardando dall’alto ciascuno di noi è insignificante, ma guardando dal basso ogni individuo ha la sua importanza, ogni vita rivela un progetto che nel tempo diventa sempre più evidente. Nei rapporti interpersonali si mette in atto il tentativo di guarire da alcune sofferenze, naturalmente con gli strumenti a disposizione e quindi magari riuscendo solo a procurarsi ulteriori patimenti, soprattutto nel tentativo di difendersi dal dolore già provato.

Rendersi conto di tale progetto è già il primo passo per capire la quota di responsabilità residua per intervenire consapevolmente. In alcuni casi la nostra parte può apparirci piccolissima, i nostri sforzi una goccia nel mare, un’impresa titanica e alla fine vana, eppure da un gesto anche minimo può dipendere la trasformazione dell’intero significato dell’esistenza.

Se il destino esiste vuol dire che qualcosa ci sovrasta e non possiamo che subire; ma esiste la possibilità di essere responsabili, allora abbiamo un ruolo. Ciascuno di noi ha una «potenza», che è la sua risorsa, il suo potenziale umano; il potere è l’organizzazione di tale potenza. Anche l’essere più insignificante, anche la vittima per eccellenza ha un po’ di potere sulla propria esistenza, una responsabilità che non viene meno anche quando è rifiutata o evitata.

Molti per sfuggire alla sensazione dell’impotenza e alla coscienza della responsabilità alzano un grande polverone di cose negative (trasgressioni e fallimenti), che possono essere ricondotte alla loro «cattiva volontà» e quindi sembrano dipendere da loro. Dietro l’ebbrezza di tanta onnipotenza negativa si nasconde il tentativo di negare quanto potrebbe derivare dall’assunzione della responsabilità di dare alla vita un orientamento costruttivo.

La responsabilità è pur sempre parziale e limitata, riguarda sempre quel poco alla nostra portata. A maggior ragione, invece di disperarsi per quello che non si può fare, bisognerebbe concentrarsi su quello che si può fare di buono. Troppi, infatti, si rovinano la vita pur di non venire a patti con i limiti, accumulando limitazioni e invalidità.
Troppi consumano la vita girando a vuoto nell’illusione di fermare il tempo; così muoiono per non morire.

Mattia Morretta (1995)

Testo originale in Sessualità e Aids: dal limite alla creatività, A77 Milano