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La nimica mia di sempre
La disparità di genere al tempo del Decameron

• Lucia libri, 10 marzo 2022

Se Petrarca nel Canzoniere giocava sull’assonanza tra Laura e lauro, mirando più all’alloro che all’amata, il cui andar non era cosa mortale, essendo d’angelica forma e con parole che suonavano altro che voce umana, Boccaccio ha avuto la sua Fiammetta per alimentare la fantasia sentimentale giovanile, onnipotente e catartica.
La ma-donna è ideale per sublimare, la sola musa che si addica al “soverchio fuoco” concepito dalla mente maschile, come provano i nomi delle donzelle celebrate, corrispondenti alle qualità di cui sono emblema per enfatizzarne il carattere immaginario o letterario.

Val la pena di ricordare che gli amanti “cortesi” erano paritari per concessione del primo sesso, star cortese con le mani significava tenere le braccia incrociate sul petto ed erano dette cortesi le false armi per non ferire l’avversario. L’uomo educato e civile si fa scrupolo di usare la forza, non vorrebbe offendere e affetta dolcezza indossando il guanto di velluto.
Un esempio paradigmatico si trova nella Novella 1 della Giornata V del Decameron, nella quale la divina saetta di Amore, per il tramite della bellezza di Efigenia, è in grado di indurre la trasformazione del rozzo bestione Cimone, figlio di un ricchissimo signore, in un campione di prodezza, tatto e filosofia, con tanto di mutamento della voce da roca e rustica a carezzevole e canterina.

Decameron, il cui autografo con illustrazioni del chierico Giovanni si trova nella Biblioteca di Berlino, è dedicato alle esponenti del gentil sesso che amano, visto che alle altre bastano l’ago e il fuso, ed è considerato un’eccezione proprio per il riferimento all’uditorio femminile. Non manca difatti la dichiarata sensibilità per la triste condizione di signore e signorine, specie quando vittime dei gelosi, “insidiatori della vita delle giovani donne e diligentissimi cercatori della lor morte”, come si ammette nella Novella 5 della Giornata VII.

Un’attenta lettura dell’opera rivela invero una visione istruttiva dei rapporti di potere tra maschi e femmine sullo sfondo di Natura e Fortuna, le due “ministre del mondo”. Del resto l’altro sesso, dotato di “picciol cuore” e quindi di scarsa possibilità di dare, tanto da venir assimilato per avarizia agli ecclesiastici, è destinatario di un’esplicita invettiva nel più tardivo Corbaccio. Ciò non toglie che Boccaccio abbia al contempo stilato nel De mulieribus claris una rassegna delle più famose eroine dell’antichità e del Medioevo, da Eva alla Regina Giovanna.

Molti passaggi del capolavoro trecentesco, al pari del coevo Racconti di Canterbury di Geoffrey Chaucer, descrivono trame adulterine che fanno del talamo un campo di sfida e battaglia tra uomini, con amanti che vogliono sottrarre la sposa al marito e in qualche caso si aiutano e salvano reciprocamente. Lo scopo dichiarato è recar conforto al lettore nelle pene amorose, sul modello di Galeotto che sostiene e soccorre l’amico Lancillotto. Al di là dei canoni dell’epoca, conviene ricordare che Giovanni era figlio illegittimo di madre rimasta ignota, la cui traccia nostalgica compare nella Genealogia, laddove egli si definisce “inclinato alle meditazioni poetiche fin dall’utero materno”.

Illuminante per la comprensione della cosiddetta violenza di genere è soprattutto la Novella otto della Giornata V, nella quale si racconta la leggenda del nobile Nastagio degli Onesti, portato alla follia dai dinieghi di “una de Traversari” di cui si è invaghito, spendendo le sue ricchezze senza essere riamato. Lei è crudele perché lo respinge e lo fa imbestialire, determinando coi suoi rifiuti un tormento che può indurlo all’omicidio. Ed è la prefigurazione della sorte che potrebbe toccarle nella magica foresta di pini (rincorsa da due mastini e uccisa da un cavaliere) a far capitolare la ragazza.
Oltre ai temi tradizionali della caccia macabra e dell’astuzia dell’innamorato, cruciale è l’accento sul substrato istintuale e la minaccia incombente sull’oggetto di investimento passionale.

La vicenda è raffigurata in quattro splendide tavole, conservate al Museo del Prado di Madrid, dipinte nel 1483 da Sandro Botticelli, che la ambienta nella pineta già dantesca sulla marina di Ravenna: la protagonista è rappresentata in fuga, nuda con appena una striscia di velo che dalla spalla destra scende a coprire l’inguine, mentre due cani le addentano le cosce (uno bianco davanti e uno nero dietro), precedendo il cacciatore, lanciato all’inseguimento a cavallo, vestito di tutto punto e con la spada alta sul capo.

Il testo è talmente esplicito da parer programmatico ed esortativo circa gli atteggiamenti che il sesso debole deve assumere per mantenere buone relazioni con il sesso forte. La giovinetta, di cui si nomina solo il padre (messer Paolo Traversaro, una famiglia aristocratica di origine bizantina), appare “tanto cruda e dura e salvatica”, altera e disdegnosa per superiorità di stirpe, da giustificare il ricorso a mezzi violenti, benché mediati dall’immaginazione.

Il cavaliere della visione nella selva paradisiaca racconta di essersi suicidato per la disperazione causata dal rifiuto, sicché entrambi sono condannati nell’inferno a riprodurre la scena in versione micidiale, con l’una che fugge e l’altro a “seguitarla come mortal nemica” per aprirle la schiena con lo stocco, strapparle cuore e visceri da dare in pasto ai cani!

L’uomo da amante diviene nemico perché la donna si rende sua avversaria non corrispondendogli o non accettando di essere posseduta. Alla fine la destinataria del messaggio si spaventa al punto di decidersi a sposare il pretendente due giorni dopo, “presta di far tutto ciò che fosse piacer di lui”. Morale della favola, colpire la singola sventurata per educare l’intera categoria: “Sì tutte le ravignate donne paurose ne divennero, che sempre poi più arrendevoli a’ piaceri degli uomini furono che prima state non erano”.

D’altronde nella Novella 7 della Giornata III, Tebaldo degli Elisei esplicita la concezione uomo-centrica rivolgendosi a monna Ermellina (moglie d’uno Aldobrandio Palermini): “Io non so che errore s’è quello delle donne, le quali gli uomini schifano e prezzangli poco”. Esse, riflettendo su quel che sono e sull’autorevolezza attribuita da Dio all’uomo sopra gli altri animali, “si dovrebbero gloriare quando da alcuno amate sono, e colui aver sommamente caro e con ogni sollecitudine ingegnarsi di compiacergli, acciò che da amarla non si rimovesse giammai”.

Donandosi di sua spontanea volontà, l’interessata diventa proprietà dell’uomo e non può più disporre di sé stessa perché sarebbe “ruberia volersi torre”. L’uomo ritiene di meritare la gratificazione e il consenso per il semplice fatto che brama e appetisce, oppure per i suoi natali, la forza, i mezzi materiali, il coraggio; non capisce perché si facciano tante storie per accondiscendere o lasciarlo fare.
Nella sfera sessuale conserva la posizione regale infantile, attendendosi la soddisfazione diretta del bisogno, senza che un ostacolo qualsiasi si frapponga tra la volontà e il compimento.

Nella Novella 3 Giornata VIII si ricorda che è solo questione di insistere per arrivare a prender possesso dei beni desiderati: “Non c’è castello sì forte, che essendo ogni dì combattuto, non venga fatto d’esser preso una volta”. Infatti le donne non valgono a coniar moneta perché non resistono al martello.
Boccaccio si preoccupa per l’onere della passionalità, poiché l’uomo versa smisuratamente energie, denaro, sostanze, quando è coinvolto nel meccanismo “amoroso”, rischiando di esaurirsi e impoverirsi.

Nella Novella 9 Giornata V Federigo degli Alberighi “in cortesia spendendo si consuma” ed è costretto a dar da mangiare alla agognata dama, dopo il decesso del coniuge, l’unica cosa di valore che gli è rimasta, cioè il suo falcone (metafora per modo di dire del membro).
Seconda morale, il sesso femminile ripaghi e ristori i maschi per i danni che patiscono nel corteggiamento.

Quanta animosità e ostilità si celi dietro la celebrazione delle grazie muliebri si nota altresì con chiarezza nella Novella 7 Giornata VIII, perché il colto Rinieri non si limita a dare una lezione alla vedova di cui si è invaghito (occupata con altro amante) e da cui è stato beffato, ma infierisce su di lei quale rappresentante del “secondo” sesso, che tende ad adescare quanti più può per impreziosire la propria avvenenza.
La crudeltà cerebrale e linguistica dell’intellettuale è sufficiente per ridurre in fin di vita la controparte, lasciata nuda su una torretta arsa dal sole e morsicata da tafani e mosche. La verità è che l’uomo desidera la vendetta più di quanto desideri la donna, e va dritto a testa bassa quando si fissa di volerla punire e castigare.

Elena per impietosirlo esclama: “Non voler le tue forze contro a una femina essercitare: niuna gloria è a una aquila l’aver vinta una colomba”. Ma Rinieri le risponde che lui non è aquila e lei è una serpe velenosa, l’antico nemico biblico. Ribadito che centomila donnette non valgono uno studioso, si lancia in una filippica sulle bestie “senza intelletto”, che preferiscono i giovanotti ai maturi, non rendendosi conto che i ragazzi non si accontentano di una, sono instabili, vogliono esser riveriti e coccolati, godono di vantarsi di averle avute, e per giunta le derubano.
Terza morale, le donne si guardino dal farsi beffe degli spasimanti e anzitutto degli “scolari”, perché anche la penna può essere un’arma tagliente.

La teorizzazione più compiuta dell’utilità di rispettare la disparità è messa in bocca a Emila, la lusinghiera, nella Novella 9 Giornata IX, nella quale si fa risalire addirittura a Salomone il consiglio dato a un giovane sposo, trattenutosi per umanità, di picchiare la moglie ritrosa alla stregua di un mulo.

Sono pagine che riassumono il senso comune avvalorato dai dati biologici e culturali, perché, se si considera con “sana mente” l’ordine delle cose, si riconosce con facilità che “la universal moltitudine delle femine” dalla natura, dai costumi e dalle leggi è sottomessa agli uomini e a loro discrezione governata. Sicché, colei che vuole avere “quiete, consolazione e riposo” con l’uomo cui appartiene, deve essere umile, paziente, ubbidiente, nonché onesta, “il che è sommo e spezial tesoro di ciascuna savia”.

Le donne necessitano di aiuto e sovrintendenza in base alle caratteristiche costituzionali, essendo delicate e morbide nei corpi, timide e paurose negli animi, benigne e pietose nelle menti, con poche forze, voci dolci e movimenti soavi. Quelle che non sono “piacevoli, benevole e pieghevoli” e che fuoriescono dai limiti loro posti vanno curate battendole, medicina utile per guarirle da tale malattia, secondo la massima: “Buon cavallo e mal cavallo vuole sprone, e buona femina e mala femina vuol bastone”.
Altrove (numero 7 della medesima Giornata) ci pensa Dio a rimediare al castigo che il marito non ha saputo dare alla consorte scontrosa, facendole incontrare un lupo che la sfigura irreparabilmente.

Non sorprende allora il detto “alla melanese” citato nella Conclusione della Giornata III, esemplare della praticità dei milanesi: “Meglio un buon porco che una bella tosa”. È preferibile un bene materiale sicuro e nutritivo a uno effimero per puro diletto.

Non per nulla Boccaccio nella mezza età aveva chiesto e ricevuto gli ordini minori e ottenuto intorno al 1360 l’autorizzazione alla cura d’anime in Cattedrale a Firenze, per poi ritirarsi da eremita a Certaldo. Quella casa però sarà il fulcro del preumanesimo, della riscoperta del patrimonio dimenticato della letteratura greca, del bilinguismo, del culto dantesco e della trascrizione definitiva del Decameron.
La morte lo coglierà solitario (deceduta la figlioletta Violante già nel 1358), tormentato da gotta e scabbia, poco più che sessantenne nel 1375, a un anno dal trapasso di Petrarca, suo più grande amico di parola e di cuore, “due corpi ma un animo solo”.

Mattia Morretta (marzo 2022)