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La silenziosa protezione del pensiero
Il fascino discreto di Cristina Campo

Ritratto a memoria di una delle personalità più singolari ed enigmatiche del Novecento nel centenario della nascita

• Art a part of culture

Cristina Campo, ovvero Vittoria Guerrini, nata a Bologna il 28 aprile 1923, è ancora bene rifugio inapparente della nostra cultura, voce accorata dell’anima costretta all’esilio dal razionalismo.
Nel profilo cesellato da Guido Ceronetti, l’esile, la morente, filatrice d’inesprimibile, ha riempito di luce il vuoto essendo lampada, è stata un segno, una figura mentale “cui non va associato l’attributo impoverente e generico di scrittrice”.
Modello di riserbo e levità (levitazione?), ha lasciato piccoli saggi di pura seta, poche austere liriche ed eccellenti traduzioni di versi altrui (sovrane quelle di John Donne), nonché un epistolario che è miniera di erudizione e spiritualità, canto dolente capace di infondere conforto e gioia.

E pensare che quaderni e libri della casa romana all’Aventino sono “spariti” dopo la morte e un funerale in sordina (buon segno, anzi sigillo). In sintonia con quanto affermava nell’autunno del 1957: “Avremo visto questo, prima di essere cancellati col mondo come un errore dell’eternità, questa bellezza a fiotti in un vecchio parco, e il volano, e il bimbetto che si allontana mangiando l’uva (e vuol forse dire... Ma adesso basta, ho già scritto troppo, e non bisogna dir niente)”.

Sua priorità assoluta era infatti calibrare la quantità di vocaboli di qualità adamantina, nella consapevolezza che quanto più importa rimane nella penna. Attenta al sapore massimo delle parole, in ossequio alla venerata Simone Weil, di cui è stata ambasciatrice nel Belpaese soprattutto con la Venezia salva, ricorreva a potatura e spoliazione fino alla nuda pagina: “Ora rivoglio bianche tutte le mie lettere, / inaudito il mio nome, la mia grazia richiusa” (Passo d’addio, 1956).

Così concludeva una cartolina per Leone Traverso: “Spero che queste righe non turbino il tuo riposo. Forse era meglio non scriverle; ma tu sotterrale, con il ricordo dei nostri ultimi giorni, come i vasi di Paestum pieni di miele” (4 maggio 1955).
Fondamentale e predestinato in tal senso l’incontro con Elémire Zolla, nel corso della collaborazione, a partire dal 1958, per la trasmissione RAI L’Approdo. Sarà lui, autore col suo contributo della magistrale antologia I mistici dell’Occidente, a sottolinearne l’eccezionale densità, ineguagliata nella prosa critica italiana.

Considerando la precisione e la scrupolosità di Cristina, impressiona che nell’edizione del 1987 de Gli imperdonabili risulti sbagliato l’anno di nascita e in quella del 1999 di Lettere a Mita l’anno del decesso. Gran parte della memoria fedele si deve proprio all’applicazione certosina di Mita, Margherita Pieracci Harwell, curatrice per Adelphi dei volumi postumi, coinvolta in una corrispondenza più che ventennale all’insegna del lei.
Oltre 240 le ricchissime perle speditele da Vittoria (che si firmava Vie - Vita), trama di cellulosa di un “amor cortese” che aveva fatto ingelosire gli amici.

Non a caso, secondo Alessandro Spina (Basili Khouzam, nato nel 1927 a Bengasi da famiglia siriana e scomparso nel 2013 in Franciacorta), altro interlocutore privilegiato in un lungo scambio epistolare iniziato nel febbraio 1961, per altezza e valore le missive di Campo vanno a braccetto con quelle di Torquato Tasso (Studi cattolici, febbraio 2000).

Nel 1989 Scheiwiller aveva dato alle stampe Lettere a un amico lontano, con i messaggi inviati da Cristina ad Alessandro durante il periodo di residenza in Libia; nel 2007 Morcelliana ha poi riunito il Carteggio, comprensivo del controcanto del romanziere. Per Spina lei “non fece mai nulla per mettersi al passo coi tempi”, il che di solito equivale a passare con essi, astenendosi dal cosiddetto dibattito intellettuale e dal “pantano dell’attualità collettiva”, guidata soltanto dalla passione della perfezione. Per questo ha subìto la vendetta del silenzio, perché si tiene in considerazione il nemico, ma non l’estraneo, colui che non si schiera e sta per suo conto (Conversazione in Piazza Sant’Anselmo, 1993).

La loro conoscenza derivava, come in una favola, dall’azzardo di fogli spediti in Libia da Campo e Zolla per dichiarare ammirazione e interesse all’ignoto scrittore, dopo l’uscita nel 1960 del raccontoGiugno ’40 sulla rivista Paragone. Ne era nata una solida alleanza con Cristina, culminata nella genesi di un libricino edito da Scheiwiller nel 1963 in un numero limitato di esemplari, Storia della Città di Rame, la favolosa vicenda narrata nella 556ª delle Mille e una notte, traduzione dall’arabo di Spina e introduzione di Campo, con raffinate e rarissime immagini.
Un gioiello non recensito e passato del tutto inosservato, non diversamente dal testo originale spesso omesso nelle varie versioni o offuscato dal settimo viaggio di Sindbad che lo precede.

L’intesa tra i due era garantita da una sostanziale affinità, in particolare l’indifferenza per la pubblica opinione e l’elogio dell’inattuale. Alessandro confidava alla suggeritrice ed estimatrice l’esigenza di rendere più leggeri i contatti interpersonali, pur vivendo in una solitudine “mostruosa”. E Cristina a sua volta, cittadina di un mondo “disteso come un mare fino a isole sconosciute”, inguaribilmente separava con rigore di spada e resisteva all’onnipotenza del visibile; coltivando “la graziosa enfasi dell’incuranza di sé” rendeva coincidenti distanza e presenza, per dedicarsi a una missione fatta di “vigilie notturne, diurni mattutini, voti di castità, obbedienza, povertà”.

Si offrivano quindi un’ospitalità mentale e spirituale che metteva in luce il meglio del loro lavoro, tessendo un dialogo dell’amicizia alla maniera di Hofmannsthal, loro indiscusso genio della lampada. In effetti Campo, che talora si siglava Xtina, svolgeva una funzione maieutica, sorvegliando e curando con intransigenza la produzione del narratore in ombra sull’altra sponda del Mediterraneo.

Perché vi sono persone che contano non solo per ciò che dicono, ma anche per ciò che ci inducono a dire, rendendo possibile l’espressione di aspetti della nostra personalità altrimenti muti, tanto che, quando muoiono, quella parte se ne va con loro. Basta un solo amico del genere, stimato e rigoroso, per riposare nella comunione delle anime.

Per Cristina la poesia era una preghiera, “una casa portata in salvo”, e la motivazione per prendere la penna in mano innanzitutto desiderio di riferire la meraviglia di una frase letta, una musica ascoltata, un pensiero altrui assimilato. Da Manziana, vicina al lago di Bracciano (ove aveva conosciuto il medico poeta statunitense William Carlos Williams, magistralmente tradotto), da una camera leopardiana scriveva a Mita: “Dormo nella luna, come cento o mille anni fa, non credevo fosse ancora possibile questo silenzio trasparente, mentre mi svesto e cammino nella stanza come un’aquila. Grilli e cani - e una piccola civetta che mi racconta tutta la notte” (11 settembre 1957).

Per reagire alle sabbie mobili sociali imparava le lingue traducendo gli autori prediletti, studiava senza risparmio, preparava i saggi stendendo un elenco di note e citazioni, lasciando che il discorso di collegamento crescesse in mezzo da solo “come un rampicante tra i sassi”. Ecco perché Spina contrappone all’inconsistenza delle firme accreditate, che ci costringono a caracollare per interi volumi “solo per avere il magro regalo di una frase brillante”, la concentrazione del periodare di Campo, che fa di una singola riga un traguardo e instaura il silenzio, chiesa e non negozio.

La lingua, diceva Cristina, fa la sua recherche du temps perdu e le temps revient, compie il cerchio riallacciando la fine al principio, al punto che sono i libri a dare fondamento alla nostra esistenza. Nel 1962 rivelava a Mita: “Prima di ammalarmi non leggevo che il dizionario, prendendo appunti. È una cosa che si dovrebbe fare ogni giorno; ma sia pure una volta ogni tanto, cambia tutto il sangue nelle vene”. Lo faceva anche Dickinson, fingendosi alunna a scuola con l’eternità: “Allevia la mia carestia / il dizionario / E ho logaritmi da bere / un vino dal gusto secco” (n. 728, 1863).

Entrambe studiose sino al momento dell’addio, non hanno avuto un’istruzione regolare per ragioni di salute e temperamento nervoso, nel caso di Cristina una cardiopatia che ne ha accentuato il destino di esclusione dalla contemporaneità e una claustrofobia curata a Roma grazie al dottor Bernhard (cui si deve l’introduzione di Jung in Italia).

Val la pena di ricordare che Campo ha riconosciuto il genio di Dickinson sin dalle prime pubblicazioni, nonché le affinità con l’omonima dello Yorkshire, per esempio associandole scrivendo a Traverso: “La poesia di cui ti parlavo era Memoria di Emily Brontë (gigantic Emily, come la chiama l’altra), che ti diedi da rivedere dopo averla tradotta” (2 gennaio 1956). Per l’editore Casini progettava “Il Libro delle Ottanta poetesse”, un’opera di cui sappiamo solo quel che riportava il catalogo del 1953, in aggiunta a sparsi frammenti di una lista che comprendeva Gaspara Stampa e Maria Stuarda.
Commenta Pieracci nella postfazione alla raccolta La Tigre assenza (1991): “Le due Emily le restarono vicine tutta la vita”. Infatti Catherine di Cime tempestose era una delle figure a lei più care e avrebbe voluto nella sua stanza il dagherrotipo di Dickinson, per poter guardare uno dei più bei volti del mondo, su quel “collo esile cinto da un velluto, i grandissimi occhi divergenti” (14 ottobre 1963).

Chiaro il suo intento: “La letteratura (parola orrenda) non è un fine, non uno scopo, ma solo un mezzo, uno dei modi di vivere con libertà e solitudine” (10 ottobre 1962). Più libera e sola col viatico degli pseudonimi (sovente maschili, tra i quali Giusto Cabianca nelle mirabili traduzioni di Giovanni della Croce), talora veri personaggi (la Pisana), identità alternative e acque profonde in cui l’ego naufragava.
Di nuovo inevitabile il parallelo con Dickinson, che nel luglio 1862 stupiva Thomas Higginson dichiarando: “Quando parlo di me come Soggetto della Poesia - non ho in mente me - ma una persona immaginaria”.

Analogamente a Emily, Vittoria si preferiva antica in verde età, a vent’anni confidava al padre Guido (direttore di Conservatorio) di aver optato per la rinuncia fin dall’adolescenza dopo la morte durante i bombardamenti di una coetanea (Anna Cavallotti, prima compagna di lettura e scrittura): “Avevo deciso di farmi spiritualmente vieille fill - e credo che lo fossi già un poco” (12 novembre 1943, Il mio pensiero non vi lascia, 2011). A trenta confermava a Gianfranco Draghi: “Mi assicuri, infine, che la felicità esiste. Anche se per me è troppo tardi, mi farà bene pensarlo”.

Seduta nel Parco di Villa Borghese a Roma, nel 1965, Cristina rivolgendosi a Spina (“Lei mio amico, cioè straniero su questa terra”) citava a proposito una delle sue poesie preferite: “Ricordo a ogni passo un verso di Emily Dickinson: Non oso dare la notizia al mio giardino”. Entrando anzitempo nell’enigma del trapasso rendeva i defunti le guide principali sulle cui tombe procedere, col passo leggero di chi vive “per pura cortesia”. E invitava a parlarne ai bambini, perché “i morti sono più vivi dei vivi e le sole creature che ci sia dato di vedere in tutta la loro bellezza e amare (ed esserne amati) di un amore perfetto”.

Inutile negarlo, la damnatio memoriae di Campo dipende dalla presa di posizione in tema di fede e sacro, la sua “lotta tragica contro l’apostasia religiosa” con la fondazione dell’Associazione Una voce. Per lei la comunicazione col divino era per definizione perpetua, incompatibile con edizioni aggiornate o moderne, aliena da false consolazioni e rispettosa del vuoto. Il 5 febbraio 1966, insieme a Zolla, aveva dunque indirizzato al Pontefice regnante Paolo VI una lettera manifesto per perorare la conservazione del latino e del gregoriano almeno nei conventi, contestando lo smantellamento del patrimonio cattolico attuato col Concilio Vaticano II e la nuova Messa. In calce figuravano tra le altre le firme di Auden, Borges, Bresson, Britten, De Chirico, Montale e Quasimodo.
In Note sulla liturgia con lo pseudonimo di Bernardo Trevisano spiegava che il mostrarsi della divinità implica un’operazione contemplativa, come nell’evento dei Magi in visita al bambino povero e bisognoso, cui recano beni non necessari, bensì celebrativi della triplice dignità di Profeta, Sacerdote e Re. Per questo, concludeva, più che rischiosa, è mortale qualsiasi arbitraria modificazione della Forma.

Scomparso il padre nel 1965, a sei mesi dalla perdita della madre (Elena Pucci), si era ritirata sull’Aventino, eleggendo dimora dello spirito l’Abbazia di Sant’Anselmo, che poteva vedere dalle finestre di casa al numero 3 dell’omonima piazza, di seguito la Chiesa cattolica russa all’Esquilino (ove tuttora si officia il rito bizantino-slavo), il Collegio Russicum (il suo “smeraldo”) e la Biblioteca del Pontificio Istituto Orientale, presso i quali si rifugiava “come il passerotto sotto l’ala dell’aquila”.

Nell’autunno del 1967 riferiva di leggere ormai solo testi teologici, anche se accanto al letto aveva Proust, Pasternak e James: a colazione studiava i canoni del Concilio di Trento, a mezzogiorno il Sacramentario Leoniano e a cena il Concilio di Nicea. Riceveva telefonate giusto da cardinali, abati, preti, e commentava: “Quando parlavo con gli scrittori, che deserto!”.

A Capodanno del 1970, dopo un mese di completo isolamento e silenzio, si diceva illuminata: “San Giuseppe da Copertino scrive la grande verità, che la malattia è sempre e unicamente ciò che Dio ha da dirci; cercarvi altre cause è buttar via la perla preziosa”. Nel risvolto de Il flauto e il tappeto (1971) teneva difatti a ribadire che, oltre alla poesia, il suo maggior interesse era la liturgia “ex-romana, la bizantina”.

Magra, pallidissima, coi forti e corti capelli scuri avvolti in un velo, invecchiata per l’impossibilità di riferire a un’amica o un amico poche frasi serali, costretta su una poltrona imbottita di guanciali perché distesa non riusciva a respirare, “l’insonne coscienza di essere in esilio”, secondo Margherita Pieracci Harwell, ne aveva accelerato la fine il 10 gennaio 1977. Un funerale discreto nella cripta dell’Abbazia, poi il trasporto a Bologna per la sepoltura nel cimitero della Certosa.

Taumaturgica la sua introduzione al misterioso volume Racconti di un pellegrino russo (1973), che condensa in tre talismani il segreto della salvezza: una antica formula sacra (l’invocazione “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me”), un rosario ritualmente intrecciato (ciascun nodo formato da sette modi) e il libro Filocalia (Amore della Bellezza, pubblicata in Russia nel 1782 ma risalente ai primi secoli). Campo vi denuncia che “l’idea stessa di orazione è stata radicalmente raschiata via dalle coscienze in Occidente” e correla le fiabe alla ricerca del Regno dei Cieli, “l’inseguimento di una visione ignota e inesplicabile, spesso soltanto un’arcana parola, per la quale si diserta di colpo la terra amata e ogni bene, ci si fa pellegrini e mendichi”.

Aveva già definito la fiaba un’amorosa educazione dell’anima, dell’attenzione e della percezione (ben altro e più della semplice vista), per ritrovare l’ingenuità originaria mediante le prove e le traversie pericolose, il viaggio dalle oscure radici alle vertiginose altezze. Così, enucleando i significati di Belinda e il mostro di Madame Le Prince de Beaumont (1756), sottolineava che la metamorfosi dell’essere mostruoso è in realtà quella della ragazza, la leggiadria del principe è in più per colei che ha lottato contro il giudizio secondo la carne e la superstizione.
Belinda ha suscitato la preziosità sin da quando ha chiesto al padre, invece di un gioiello o di una veste sfarzosa, “una rosa, solo una rosa” in pieno inverno. Perché la libertà del cuore di cui parla la religione offre igiene spirituale, vigilanza contro i turbamenti e ricettività al simbolo, e allora l’anonima fonte nella grotta di un santuario può ben alimentare un lago di miracoli (Les sources de la Vivonne, 1963).

Nel nome delle sue “sfingi sorelle” (il rito, il mito, il paesaggio e il linguaggio) ne Gli imperdonabili ha lanciato l’appello a non cedere al “povero mondo biochimico di domani dove il pensiero non sarà più che un siero, la coscienza più che un tegumento”. E ha ammonito, “in un’epoca di progresso puramente orizzontale”, che il solo atteggiamento non frivolo è quello del cinese intento a leggere un libro in fila in attesa della ghigliottina, di cui narrano le cronache della rivolta dei Boxer a inizio Novecento. L’ufficiale tedesco di scorta ai condannati non aveva retto a tale compostezza e lo aveva graziato. Infine nel Diario bizantino, comparso postumo sulla rivista Conoscenza religiosa (fondata da Zolla), l’atteso annuncio: “Due mondi - e io vengo dall’altro”. Anche lei richiamata, per dirla con Dickinson, per far delle tenebre roseti trasparenti.

“Carissimo, l’anno si è consumato così velocemente, eppure bruciava lento, ora alto, ora trepido - ecco, ne resta appena un guizzo, appena il tempo di augurarti tutto ciò che vorrei per te, di chiederti lo stesso augurio. Ricordo un tuo bigliettino due anni fa: come mi accompagnò nell’anno, l’aiutò a fiorire. Vorrei di nuovo questo talismano, la silenziosa protezione del tuo pensiero: lo vorrei oggi come sempre, oggi più che mai” (30 dicembre 1958, a Mario Luzi)

Mattia Morretta