Presentazione
6 Ottobre 2014
La sessuologia e il corpo
6 Ottobre 2014

Società e psicologia nell’esperienza omosessuale

“Credete forse che siano degli studiosi? Ah, no, non leggono veri libri di medicina, quelli; che importa loro dei dottori? E quale dottore, poi, può sapere tutta la verità? Molto spesso non conoscono che i nevrastenici, quelli tra noi che la vita ha troppo duramente provati (…) La verità vera non è conosciuta che dagli invertiti normali”
(Marguerite Radclyffe Hall, Il pozzo della solitudine, 1928)

Nessuna formulazione teorica riesce a essere convincente ed esaustiva in merito alla “genesi” dell’omosessualità.
Prescindendo dall’ipotesi biologica, due sono le concezioni più accreditate finora: una, di derivazione psicoanalitica, fa riferimento a un particolare rapporto con la madre e al “fallimento” nel superamento del complesso edipico; l’altra, di derivazione sociologica, chiama in causa esperienze nella pubertà e in gioventù.

Non si tratta, beninteso, di “spiegare” l’omosessualità (che rappresenta un dato di fatto della storia umana), piuttosto di evidenziare alcune delle molteplici variabili che rivestono un ruolo significativo nella strutturazione della psicologia e del comportamento omosessuale.

Il criterio culturale fornisce elementi degni di considerazione circa le modalità di sviluppo della sessualità e dell’affettività all’interno di situazioni ambientali determinate, tenendo ben presente che non si parla di Verità, bensì di Verosimiglianza di letture e interpretazioni, nel raffronto tra teoria ed esperienza personale.

L'omosessuale come oggetto di studio

« Gli omosessuali hanno di solito aspetto assai giovanile e sono tardi nello sviluppo psicosessuale; non dimostrano una predilezione particolare per giochi o sport all'aperto, e hanno spesso invece notevoli doti drammatiche. Quest'ultima qualità, come pure una certa vanità innata, li conduce a provare piacere nell'ostentazione di gioielli e ornamenti personali ».

La descrizione a effetto è contenuta in un manualetto divulgativo degli anni Settanta intitolato Fisiologia del sesso. L’autore non pare certo preoccupato dell’attendibilità scientifica delle sue affermazioni, né pare conscio della potenziale comicità degli assunti.

Potrebbe essere divertente, se non fosse tragico per le conseguenze, un approccio ironico alla questione omosessuale. La bizzarria degli autori è a volte davvero sorprendente e i loro libri potrebbero far parte a pieno diritto di serie televisive quali “Ai confini della realtà”.

Si pensi ad un fantomatico “Degenerazione e criminalità nei colombi”, che ci informa delle pratiche omosessuali nei piccioni belgi. Decine e decine di medici e psichiatri si sono cimentati col soggetto accumulando messi di: Gli ipogonadismi maschili, Les deviations sexuelles, Homosexualitat, magie und aggression, L’inversione sessuale, Uno su venti, L’io degli omosessuali.

L’omosessualità nel corso dei secoli XIX e XX è stato uno dei temi più trattati e discussi. Il sapere ufficiale, tuttavia, ha manifestato palesemente nel merito e nel metodo quanto stretti fossero i legami con le esigenze normative della società. Il registro adottato difficilmente è stato all’altezza del rigore scientifico, per via del bisogno dell’osservatore del fenomeno di rassicurare la collettività inserendo l’oggetto osservato in categorie riduzionistiche.

Da qui la difficoltà di rinvenire testi “puliti” e analisi “serene” sull’argomento. Del resto, per la psicoanalisi, Lacan ha posto in luce un punto chiave con la domanda: “Qual è il desiderio dell'analista?”.

La relazione “terapeutica” corre nel nostro caso su binari erotizzati in chiave sadomasochistica, poiché il gregarismo indotto nell’omosessuale genera una domanda di conoscenza delle cause (cui il Sapere risponda con piacere) che altro non è se non bisogno di riprodurre la Colpa e con essa la Soggezione.

Non è irrilevante in proposito l’inesistenza di figure pubbliche di terapeuti, giudici, politici omosessuali, data l’incompatibilità presupposta tra ruolo di Autorità (con i suoi rapporti col Padre Simbolico) e l’omosessualità mancante per definizione dello statuto di Soggettività (il noto, paranoico, Schreber, Presidente della Corte di Dresda ne è paradigma nella letteratura psicoanalitica).

Per assurdo, quindi, la competenza riguardo al vissuto omosessuale viene delegata a chi omosessuale non è, perpetuando l’inaccessibilità a una Nominazione diretta dell’individualità (fosse pure con volontà di potenza!) e l'impossibilità a parlare con cognizione di causa da parte degli omosessuali.

Si delinea pertanto una operazione di rilevanza culturale ed esistenziale, definibile quale “levata del mutismo”, in quanto ascesa a un linguaggio responsabile capace di fondare soggetti omosessuali parlanti-da-sé. Sorgono, purtroppo, due ordini di problemi.

Il primo relativo a cosa vi sia da dire in un contesto di continua incomprensione e interferenza, meditando sulla proposta di F. Deligny (assistente di bambini artistici) di imparare il silenzio invece di cercare di far parlare.
Il secondo collegato al timore di una contraffazione dell’esperienza nel passaggio attraverso il terreno paludoso delle parole.

Ritrosia nascente dal pudore di prevaricare le esistenze reali riducendole a un discorso capace di articolare subdolamente campi dinamici di dominio sempre nuovi; oppure paura di far uscire dall’ombra verità alterate nell’ineffabilità originaria una volta giunte alla luce della ufficialità.

Ci si ritrova, cioè, ad occupare comunque una posizione di testimone “altro”, privilegiato dal possesso di sapere emancipato e riconosciuto. Il rischio di permanere in un ambito di marginalità frustrante, limitandosi al semplice “sentire”, è tale tuttavia da spingere all'azzardo della responsabilizzazione formale.

Si arriverà al paradosso di dire dell’omosessualità negando che se ne possa parlare fino in fondo. E ancora, all’apparente assurdità di reclamare un diritto alla Parola forse solo per potersi ricucire addosso un abito già imbastito nelle linee fondamentali dalla cultura psicoanalitica istituzionale e non.

Alla base di ogni tentativo di comunicazione si situa la fiducia tenace, nonostante tutto, nella possibilità di essere infine compresi; ed è in virtù di un atto di fede nella umanizzazione che si domanda attenzione e rispetto per gli omosessuali.

La lettura psicoanalitica

Scrive G. Politzer (ne Il mito dell'antipsicoanalisi): «La psicoanalisi è un romanzo, si dice. Non ci si rende conto di quanta verità vi sia in questa affermazione. La psicoanalisi è il romanzo portato al livello della scienza».

Ciò induce a distinguere tra Verità e Realtà, ma istruisce nello stesso tempo sull'implicita fascinazione letteraria del modello psicoanalitico, capace di opporre alla freddezza delle statistiche sociologiche la drammaticità degli affetti.

Molto, forse troppo, è stato detto sulla psicogenesi dell'omoerotismo e per di più senza preoccupazioni per le stridenti contraddizioni fra le varie teorie.

Naturalmente, ricercare spiegazioni al fenomeno dell'omosessualità è servito non solo a tentarne un controllo, ma pure a garantire il misconoscimento della necessaria messa in discussione della normalità eterosessuale, secondo una proposta (rimasta sempre soltanto tale) dello stesso Freud che, in una nota aggiunta nel 1914 ai Tre saggi sulla sessualità, affermava: “Dal punto di vista della psicoanalisi anche l'interesse esclusivo che gli uomini provano per le donne è un problema che richiede ulteriori chiarimenti e non è un fatto evidente basato su una attrazione di natura chimica”.

Ne è trascorso, però, del tempo dalle rappresentazioni grottesche e straordinarie dell'omosessuale-tipo, e non è certo possibile confondere l'apporto indiscutibile alla conoscenza da parte degli studi psicologici con le fantasiose idee, per esempio, di Sir Richard Burton nell'Ottocento a proposito delle influenze decisive della geografia sul comportamento omosessuale (la cosiddetta “teoria sotadica”).

L'influsso del pensiero psicoanalitico sugli omosessuali è ormai indiscutibile, e non solo nell'accezione negativa di un condizionamento tanto penetrante e pervasivo da comportare un travisamento retroattivo dell'esperienza di vita in base agli schemi preconfezionati più divulgati.

La psicoanalisi, che ha rivendicato la proprietà dell'omosessualità per sottrarla alla legge e alla medicina tradizionale, si è pure rivelata uno strumento per giungere a rendere coscienti meccanismi psichici mortificanti e sostenere nella liberazione dal giogo massacrante del senso di colpa.

Nella famosa lettera ad una madre, Freud ebbe a dichiarare: “se vostro figlio è infelice, torturato da conflitti, inibito nella vita professionale, la psicoanalisi gli apporterà l'armonia, la pace dello spirito, anche se il suo orientamento sessuale resterà immutato”.

Accettare il valore di una prospettiva psicodinamica non significa del resto assorbire il giudizio normativo di taluni protagonisti della vecchia scena psichiatrica. La ricerca delle tracce di passaggi e di percorsi dimenticati nella storia individuale può risultare illuminante o quantomeno significativa.

Per esempio, la figura materna pare rivestire un ruolo, se non chiave, almeno fondamentale nell'esistenza e nella coloritura affettiva di tanti omosessuali. Nulla di strano, in fondo, se si pensa che proprio la psicoanalisi ha contribuito a fare della Madre il personaggio centrale della famiglia e della strutturazione inconscia della personalità.
Anzi, l'ambiguità di certe affermazioni ha alimentato confusioni di termini fra madre cattiva e madre malata, oltre ad aver caricato tale figura di ogni responsabilità circa l'equilibrio psicofisico e persino l’inconscio del bambino.

Winnicott ingiungeva alle madri: “La salute dell’adulto si costruisce nell’infanzia, ma la base della salute dell'essere umano dipende dal vostro comportamento nelle prime settimane e nei primi mesi di vita del bambino (…) Siate felici perché la gente vi ritiene importanti”.

E, per quanto ci riguarda, sembrano logici i toni di tanti articoli giornalistici del recente passato (ad esempio, Franche-Dimanche): “La verità sull'omosessualità: tutte le madri di famiglia devono sapere che (…) uno psichiatra svizzero non ha esitazioni, per lui nel 70% dei casi i genitori sono responsabili dell'omosessualità dei figli, soprattutto la madre! Insistete sulla responsabilità della madre anche se questo può sembrare stupefacente. Ci sono troppe madri che desiderano nel più profondo di se stesse che i loro figli siano omosessuali”.

Il padre è meno coinvolto nei traumi psichici del bambino, perché semplicemente compare “dopo”, il suo status è di “secondo”. Nei confronti dei padri prevale una certa indulgenza, cosicché alle madri resta il peso dell'intera felicità o disgrazia dei figli.

Betty Friedan commentava: “In ogni storia clinica di bambini caratteriali, in ogni caso di adulti nevrotici, psicopatici, schizofrenici, affetti da mania suicida, alcolizzati, omosessuali e impotenti, donne frigide o angosciate, asmatici, ulcerosi, sempre si ritrova la madre.

All’origine c'è sempre una donna infelice, insoddisfatta, una moglie esigente che perseguita il marito, una madre dominatrice o soffocante o una madre indifferente”. Troppo anche per un masochista.

L’attribuzione di assoluta importanza finisce per ritorcersi sulla madre, mentre l’interpretazione data agli eventi risente di un progetto di sviluppo volto a generare esclusivamente “normalità”, secondo una propedeutica della norma sociale spacciata per salute mentale e fisica.

Comunque sia, quasi indipendentemente dai suoi tratti personali, la madre appare amabilis per la stragrande maggioranza degli omosessuali, forse anche per la possibilità di attribuirle un'accettazione in-condizionata, rispetto alle precise condizioni e alle pesanti contropartite proprie dell'accettazione paterna.

L’assenza del padre nel determinismo della “scelta” omosessuale gode di un credito forse eccessivo. Il rapporto madre-bambino è ugualmente permeato dall'esistenza di un padre pur nella mancanza reale di quest'ultimo: la mancanza non è letterale ma simbolica.

Il padre concreto può anche non mettere in pratica la legge patriarcale, oppure essere “femminile” quanto si vuole, quel che conta è la sua funzione significante, spesso sostenuta per procura dalla madre.
Il bambino vive o la privazione del padre o la sua assenza quanto mai presente: non c'è mai il nulla e si avrà comunque coscienza di cosa si dovrebbe essere.

Del resto, si può affermare che la madre traduca al bambino la legge del padre insieme ai linguaggi del corpo e del piacere; il ruolo paterno invece fornisce gli elementi essenziali per entrare a far parte del mondo condiviso e comune. Grazie al “nome del padre” il bambino diviene capace di porsi come soggetto di discorso e soggetto sociale.

Tutto ciò ha poco a che vedere col padre in carne e ossa, perché la peculiarità del mondo paterno risulta essere la Distanza nonostante la prossimità: “Non è attraverso il contatto fisico che si manifesta l’amore per il padre (…) Il padre deve sapere che è attraverso la parola che arriverà a farsi amare e rispettare dai figli” (Françoise Dolto).

Il padre interviene nella diade madre-bambino a introdurre una separazione senza la quale non c’è possibilità di acquisire i tratti distintivi della cultura di appartenenza. Il complesso edipico, infatti, non è meramente una metafora della struttura psichica familiare, bensì una sorta di legge che descrive l’accesso alla dimensione culturale da parte di ciascun individuo.

Il “cammeo d'amore” madre-bambino, prototipo di tutti i successivi rapporti, è già in sé segnato dal padre, nonostante si tenda a considerarlo del tutto autonomo. Prima di voler essere il padre nei confronti della madre, il bambino desidera essere il fallo della madre o per la madre, quale retaggio del desiderio fallico materno.

Come insegna Lacan, il desiderio è desiderio dell'Altro. Il bambino apprende a desiderare di soddisfare il desiderio della madre e poiché ella desidera che il bambino sia il soddisfacimento finale della sua “invidia del pene”, egli vorrà essere come la madre o non diverso da lei, cioè “lei con il proprio fallo”, ma impara ad essere “il suo fallo per lei”.

In questa situazione si inserisce la interdizione paterna alla realizzazione del desiderio del bambino (in verità riflesso di quello materno), da quel momento appunto per definizione “irrealizzabile”. Sarà la paura dell’evirazione a risolvere il dramma, spingendo il maschio ad identificarsi con colui che può operare la castrazione e a incorporarlo come figura autoritaria interna.

La rinuncia alla madre, però, non avviene mai interamente, se non al prezzo di tragiche falsificazioni. La saggistica femminile ha dimostrato che l’oggetto d'amore materno resta unico anche per la donna: “Dietro ogni persona c’è una donna, la madre, sia per il bambino che per la bambina, sia per l'uomo che per la donna” (J. Mitchell).

Non è quindi nella preservazione tout court della madre quale oggetto inconscio di desiderio che si può rintracciare una caratteristica del vissuto omosessuale. Più rilevante appare la soluzione al problema della castrazione ai fini dell'acquisizione culturale del ruolo sessuale.

Sintetizzando, la psicoanalisi sostiene che la genitalità eterosessuale si costruisce attraverso la scelta di “oggetti parziali” che occupino il posto della madre vietata dalla funzione paterna (il fallo per lei). Nell'accettare la possibilità della castrazione il maschio si guadagna un posto accanto al padre contando sulla promessa di divenire a sua volta padre in seguito o meglio di arrivare ad assumerne la funzione. Lo strumento simbolico col quale è possibile accedere al godimento degli oggetti parziali o sostitutivi è il Fallo.

Nell’omosessualità il soggetto non accetterebbe il valore strumentale del fallo, proprio perché non garantisce il godimento della madre, e si identificherebbe con il Fallo stesso, continuando a voler essere il Fallo.
Scrive Lacan: “Tutto il problema delle perversioni consiste nel concepire come il bambino, nella sua relazione con la madre, si identifichi all’oggetto immaginario di questo desiderio, in quanto la madre stessa lo simbolizza nel fallo”.

Le scelte che gli uomini possono effettuare di fronte alla minaccia della castrazione sono quindi costituite da: feticismo, omosessualità accettata o negata, piena “virilità” (che comunque contiene in sé anche le altre, poiché non esiste la via d'uscita ideale).

Per il bambino nella situazione edipica l'alternativa è: “se non sono maschio, sono femmina”. Il piccolo Hans decide di attendere l'arrivo di grandi cose, Schreber accoglie la presunta evirazione effettiva (nel delirio) che è lo stigma della femminilità; l'uomo dei lupi, a sua volta, non riesce a superare la paura dell'evirazione, conseguenza inevitabile della “meta omosessuale”, se non al costo insostenibile della più dura ferita narcisistica.

Precisa Freud: “Entrambe le possibilità comportano la perdita del pene: una, quella maschile, sotto forma di castigo, l'altra, quella femminile, come presupposto”. Ciò al di là del sesso dell'individuo, perché l'Edipo è sempre duplice, benché si dimentichi in genere la componente “invertita”.

Il desiderio del bambino nei confronti del padre risente e si fonda sullo schema appreso dalla madre e inscritto nella significazione fallica quale discriminante fra i sessi. Se lo si lascerà parlare, dirà della mancanza e della privazione, analogamente alla madre-donna.

Elio Modugno, ne La mistificazione eterosessuale, sostiene infatti che la maggior parte degli omosessuali si identifichi con la madre fallica, interiorizzando il ruolo della donna che “brama” il fallo: “L’omosessuale pertanto vede inconsciamente nell’uomo che brama il sostituto di sé bambino, mentre si pone di fronte al partner maschile nelle vesti della madre, cioè della donna che vuole il pene”.

D'altronde, non è neppure necessario che l'altro sia virile, ciò che conta è sia Uomo. Dunque un maschio può percepirsi in una “posizione femminile” pur non mancando di nulla, per lo meno sul piano dell'anatomia.

Il bambino (potenzialmente) pre-omosessuale tenterebbe di conservare intatta la cosiddetta civiltà minoico-micenea della psiche, cioè l'amore per la madre pre-edipica, trascinandosi dietro il fardello del desiderio del fallo maschile. Ciò implicherà rinuncia all'oggetto sessuale “sociale”, la donna, e al contempo faciliterà lo sviluppo dell'omosessualità a condizione di pagarne il dazio psicologico ed esistenziale: una inibizione paralizzante per la sicurezza ontologica; la precarietà di una mancanza incolmabile nell'autorappresentazione; la colpevolizzazione della collettività associata al senso di colpa per aver tradito la legge del padre, non aver rispettato le regole, forse aver davvero sostituito il padre, e via dicendo.

Alla base delle problematiche di “inadeguatezza”, “inferiorità”, “inibizione” degli omosessuali si colloca l'assunzione di un'immagine interiore disegnata al femminile?! Gli omosessuali medesimi attribuiscono all'omosessualità la causa degli handicap nell'abilità fisica, nello sport, nel lavoro, per via di un adeguamento allo stereotipo che la associa a femminilità-impotenza-passività, un percorso quasi obbligato a causa dell'incapacità di ritrovare in se stessi un significato fallico o la pienezza di significato data dal fallo.

La lettura culturale e sociologica

In studi di impronta femminista si sottolinea che la donna svolge nella trama sociale un ruolo illusionale e pur tuttavia essenziale per la mediazione tra maschi: gli uomini la utilizzano per arrivare ad altri uomini, perché la legge che ordina la comunità valorizza esclusivamente gli uomini e gli scambi tra loro.

Tale relazione dell’uomo con l'altro uomo per il tramite di una donna configura una cultura uomo-sessuale ovunque regnante ma proibita all'uso, e fa dell'eterosessualità un alibi per il buon andamento dei rapporti dell'uomo con se stesso e con gli altri.

Se dunque un maschio si troverà a sperimentare attrazione erotica o affettiva di tipo omosessuale, non potrà continuare ad occupare il posto assegnatogli dalla società nello schema di relazioni “eteromorfe”, bensì dovrà passare ad occupare quello previsto per la donna al fine di conservare lo status quo.

Nonostante in tal senso possa essere ritenuta un sottosistema della organizzazione uomo-sessuale della società, l'omosessualità deve venir negata per forza perché “rende operante l'incesto, il quale deve restare nella sembianza. Esemplari al riguardo sono le relazioni padre-figlio, che assicurano la genealogia del potere patriarcale (…) Ovunque effettive tali relazioni non possono sparire né possono esibirsi in amore pederastico, né praticarsi altro che nel linguaggio, altrimenti provocherebbero una crisi generale. Tutta una parte del simbolico avrebbe fine. Le altre relazioni omosessuali sarebbero comunque sovversive e perciò proibite. Interpretando apertamente la legge del funzionamento sociale, esse rischiano in effetti di alterarne l'orizzonte” (Luce Irigaray).

La colpa dell'omosessuale sarebbe dunque quella di prendere alla lettera ciò che deve rimanere allusivo ed occulto. Inoltre, il pericolo è che il cortocircuito del sistema di scambi sminuisca il valore del campione di ogni misura: “Se il pene, perfino il pene, diventa un semplice mezzo di piacere, e tra uomini, il fallo perde il suo potere”.

Dice Michel Foucault in un articolo sull’amicizia omosessuale: “Immaginare un atto sessuale non conforme alla legge o alla natura non inquieta più di tanto la gente. Ma il problema sorge quando degli individui cominciano ad amarsi. Le istituzioni sono prese in contropiede (...) sono attraversate da intensità affettive che contemporaneamente le sostengono e turbano. I codici istituzionali non possono ratificare l’esistenza al proprio interno di queste relazioni dalle intensità multiple, dai colori variabili, dalle forme mutevoli, dai movimenti impercettibili. Relazioni che produrrebbero un cortocircuito, introducendo l’amore laddove dovrebbero regnare la legge, la regola o l’abitudine”.

La possibilità di praticare l’omo-sessualità e più ancora l’omo-affettività creerebbe alleanze energetiche conturbanti. Foucault va oltre sostenendo che: “L’omosessualità è un’occasione storica per riaprire virtualità relazionali e affettive, non tanto per le qualità intrinseche dell’omosessuale, ma perché la sua posizione, le linee diagonali che egli può tracciare nel tessuto sociale consentono a queste virtualità di venire alla luce”. Le qualità intrinseche di un omosessuale, di fatto, sono quelle della sua storia, frutto di apprendimento di modi alterati di concepirsi.

Nel dover coattivamente vivere se stessi come “più donne che uomini” (per riprendere il titolo di un romanzo della scrittrice lesbica Ivy Compton-Burnett, More Women Than Men), fondendo elementi ossessivi e costruzioni isteriche, gli omosessuali manifestano in potenza qualcosa di fondamentale nella direzione della ricomposizione della frattura tra maschile e femminile nell’uomo (Roland Barthes diceva che nella madre aveva visto per tutta la vita l’espressione di un paradosso insostenibile: “l’affermazione di una dolcezza”).

Quanto alle ipotesi sociologiche, non è facilmente comprensibile il motivo del salto del fossato dei ruoli per scegliere quello più svantaggiato, visto che certamente un uomo non desidera trovarsi nella condizione femminile ed essendo per entrambi i sessi privilegiata e agognata la posizione “maschile”. Altrettanto vale per l’assunto di fondo della teoria dell’apprendimento, secondo la quale le vicissitudini con i coetanei e i primi episodi sessuali hanno un effetto duraturo sulla identificazione e sulle preferenze sessuali.

Le abitudini a reagire a determinati stimoli, con il corollario di ricompense, punizioni, opportunità, hanno certo grande parte nel ri-definire le personalità e gli aspetti interpersonali. Anche in questo caso ci si trova, però, a immaginare un soggetto che non può aver ricevuto vere “gratificazioni” o “incentivi” a proseguire nella direzione diversa da quella normale, operando la scelta di un sistema a consumo e costo superiori.

Un comportamento può esser frutto di “abitudine”, meno probabilmente un vissuto interiore. In molte circostante è probabile che una modalità omo-sessuale venga appresa in conseguenza di rafforzamenti o ulteriori esperienze; ed è anche possibile in date situazioni capire meglio l’individuo considerando quali forze concorrano nel presente a sostenere una condotta piuttosto che rivolgere l’attenzione ad avvenimenti del passato.

In linea di massima, tuttavia, le ricerche sociologiche e psicologiche, tese ad evidenziare tratti distintivi degli omosessuali attraverso il comportamento, esplorano un continente dal terreno minato: rilevare che gli omosessuali si sono trovati “fuori fase” durante la pubertà e l’adolescenza, non significa poi molto, benché permetta di delineare una disarmonia sostanziale rispetto al contesto, la punizione forse più atroce per il singolo omosessuale.

L'esistenza è, cioè, connotata in negativo, sia come riflesso di una positività irraggiungibile sia come impossibilità di armonizzarsi con l’ambiente circostante. Ciò è potenzialmente distruttivo e sembra dar ragione allo scrittore Tony Duvert, laddove asserisce che i gay dimostrano una resistenza eccezionale allo stress (riferendosi ai soldati americani omosessuali in Vietnam).

Nel testo Affinità sessuali di Weinberg, Hammersmith e Bell, vengono presentati i risultati di una ricerca condotta nel 1970 su 979 omosessuali e 477 eterosessuali, con metodologia di analisi per tracciati o di tendenza (path analysis). La sola variabile descritta come veramente significativa è quella definita di “Non Conformismo al Genere” nella fanciullezza e/o nell'adolescenza. Questo sembra essere un vero “carattere”, quanto meno sui grandi numeri. In effetti, anche Money e Ehrhardt arrivano alla conclusione che: “L’unico tratto costante che si rinviene nella personalità degli omofili maschi è l’assenza di combattività per conquistare la supremazia nelle gerarchie fra maschi”.

Ciò si rivela deleterio per la sicurezza dell’individuo, perché la cultura corrente non ratifica manifestazioni alternative a quelle previste per il sesso di nascita. Di per sé la carenza di combattività non costituisce in assoluto un rischio, ma lo diventa se nella società è necessario fare attivamente qualcosa per dimostrare di essere “virili” (i maschi devono provare o meritare la qualifica di mascolinità).

Il non conformismo al genere è tra l’altro collegato alla sperimentazione precoce della diversità omo-emozionale anni prima dei veri e propri atti omo-sessuali. Le “sensazioni” risultano preponderanti e più decisive delle condotte. L’atteggiamento freddo o ostile da parte del padre, riferito da molti omosessuali, potrebbe derivare dalla percezione della “diversità” del figlio e condizionare la reciproca identificazione.

Dal punto di vista comportamentista, d’altronde, il sesso è una sorta di sostanza amorfa all’interno di dinamiche di potere, suscettibile di venire utilizzata a seconda delle circostanze (facendo di se stessi degli oggetti sessuali, ci si salva la vita deviando la aggressività altrui).

Esistono certamente motivazioni differenti da quelle libidiche nella vita sessuale, e la stessa sessualità pare poter funzionare come un mezzo di scambio nel gruppo, o più ancora in rapporto al potere dei soggetti sociali. Il gioco delle identità sessuali è assai più complesso del puro comportamento, il quale è a sua volta più legato ai processi psichici di identificazione in un ruolo di quanto non sia vincolato alla costituzione somatica e al suo riverbero nella cultura.

La percezione di sé è il vero centro dell’esperienza: tutto quanto accade può venire stravolto nel significato oggettivo dal filtro percettivo. Determinanti risultano essere le emozioni e i vissuti di diversità omo-sessuale nell’infanzia per molti omosessuali esclusivi o effeminati. Per altri le attività omosessuali concrete sembrano avere un ruolo maggiore e “il caso” giocherebbe nel rinforzare e insegnare, soprattutto per gli omosessuali mascolini o tendenzialmente bisessuali.

Le differenze in fatto di comportamenti o di esperienze sociali dei ragazzi pre-omosessuali rispetto ai coetanei pre-eterosessuali possono rispecchiare o semplicemente esprimere più che “causare” la preferenza omosessuale ultima. Anche perché alla pubertà non si verificano svolte, se mai vi sono “rivelazioni” nelle quali si manifesta il corso dell'identità di genere e di ruolo stabilito nell'infanzia.

Si ritorna a parlare così di costellazioni parentali, rapporto con la madre e identificazione nel senso lacaniano di assunzione di un’immagine (imago) che trasforma il soggetto. Identificazione come “assimilazione virtuale dello sviluppo di una struttura”, a cui si aggiungerà l’apprendimento di una soglia di sensibilità a certi stimoli implicanti comportamenti di attività fisica e predominio oppure di attività parentale, costituenti le basi fondanti dell’identità maschile e femminile.

Di grande rilievo sembra la questione della simmetria e della complementarietà nella strutturazione della personalità. Poiché il mondo è diviso in due sessi, assumere un’identità vuol dire arrivare a percepirsi uomo o donna non tanto secondo un dettato, quanto sulla scia di miriadi di informazioni sessualizzate, cioè definite come proprie di ciascun sesso. In base a esse si formano le aspirazioni, il tipo di interazioni, la sintonia con l’ambiente, oltre al modo di cercare e vivere il contatto sessuale vero e proprio.

Se il nucleo psichico, intorno al quale si cristallizzano e stratificano attitudini e modalità d’essere peculiari, è per ciascuno collocato in profondità talora insondabili, è la sperimentazione delle risposte altrui a modellare e addirittura creare la condotta sociale.

Si tratta allora di decodificare i tratti specifici dello stereotipo omosessuale mutuato dai ruoli eterosessuali, rendendo più flessibile lo schema di genere e arricchendo lo schema “umano”. Al di là, infatti, delle differenze genetiche e genitali fra i sessi, tutte le altre sono negoziabili, non sono date una volta per tutte. Da tale “negoziazione” dipende il nostro futuro, se la direzione evolutiva sarà l’umanizzazione affrancandosi da modelli soffocanti e artificiali e se la diversità verrà vissuta meno paranoicamente.

Mattia Morretta (1983)

Parte delle conclusioni della Tesi di Laurea in Medicina e Chirurgia, Università degli Studi di Milano: Il problema dell’omosessualità maschile. Applicazione di modelli integrati (psicoanalitici e behavioristici) all’elaborato di un gruppo di autoanalisi, Anno accademico 1981-1982